mercoledì 8 aprile 2009

COME CADONO LE BOMBE

di Marcello Sordo, Gaza

Può capitare che quando ci si corica un acuto ronzio sovrasta la testa, satura la camera, impedisce il sonno come una zanzara, una metallica zanzara.
Ci si affaccia alla finestra ma l'oscurità non rivela niente, si guarda ai generatori di elettricità che Giustificarispondono muti, perché in quel momento, come per grazia ricevuta, la corrente è fornita dalla centrale elettrica di Israele.
Ci si ricorica e viene in mente la televisione satellitare a tratti disturbata e inguardabile per le interferenze che rendono l'immagine cubiforme o un giorno in cui un amico segna il cielo e chiede: “Senti il rumore? Sono sopra di noi ora, capita tutti i giorni”.
La permanente esposizione di Gaza ricorda il collo caldo e palpitante di una preda, con tutta l'eleganza e grazia di certi animali che, negli spazi aperti, mantengono una costante attenzione, mentre godono dei frutti della natura circondati da cuccioli, unico slancio in avanti ed espressione di un futuro per chi un futuro non ha.

ZENANA
Majed è un mio collega, lavora in chirurgia e parla un buon inglese. E' alto, robusto; baffi e reyban fanno venire in mente il Messico ma l'esuberanza giovanile mi riporta a “happy days”. Da un po' mi invita a casa sua, per pranzo, a conoscere la famiglia. Il suo invito si associa a tanti altri ed è difficile onorarli tutti, perché l'ospitalità è veramente incredibile e un invito a pranzo è roba seria da queste parti, prende tutta la giornata, un po' come in giro per la Calabria e la Sicilia.
Decidiamo di fare una passeggiata per Jabalia Camp dopo il lavoro, visto che lui è della zona. Come ogni abitante del Mediterraneo si parte dal cibo, così mi accompagna nel miglior ristornate dove mangio un ottimo shoarma, pollo arrotolato nel pane arabo e condito con salsa di yogurt; lui preferirà più avanti un panino ripieno di fegatini e cipolle alla piastra, venduto in carretti sulla strada da simpatici fattori. Mentre si parla di cucina mediterranea mi indica le rovine intorno alla piazza: una caserma della polizia sulla destra, un palazzone in cui c'era qualcosa di Hamas sulla sinistra.
Ci dirigiamo verso “Al-Assria”, un centro culturale per bambini e adolescenti gestito dalla UHWC, la Ong di Al Awda. Prendiamo la strada opposta al centro culturale e ci immettiamo dentro una fitta rete di vicoli pieni di umanità, tipici di Jabalia Camp e della maggior parte dei campi profughi palestinesi in Medio Oriente. Majed mi sta conducendo a vedere le case perdute da due suoi parenti.
Pare naturale che quando qualcuno ha delle ferite profonde le voglia mostrare o, forse, le voglia denunciare a un mondo esterno che appare assente.

Troviamo in una traversa a destra quello che dovevano essere tre palazzi.
Del primo, che era di cinque piani, da un lato si può toccare il tetto salendo su uno sgabello. Ci abitava lo zio, della famiglia Abuwad, insieme ad altre sette famiglie.
Per una manciata di minuti hanno evacuato la casa prima che venisse abbattuta, insieme al palazzo affianco e la terza casa. Tuttavia ci sono stati quattro feriti e un ragazzo di 18 anni è morto nella fuga, schiacciato da un pilone.
Alle ore 20 di quella sera un vicino si mette a urlare ai dirimpettai dei palazzi che saranno colpiti. Ha sentito un botto e visto il fumo uscire dal tetto della prima casa.
L'unico avvertito del pericolo sbraccia e allerta dalla finestra, è una fortuna che, mentre le famiglie erano affaccendate nelle questioni domestiche, ignare, tra vociare di bambini, televisioni accese, musica o che altro, il vicino sia riuscito a mettere tutti in fuga. Dal primo botto, che non era stato avvertito dagli abitanti colpiti, passano appena cinque minuti che gli F16 dal cielo mandano tutto il loro carico di morte a spazzare via ogni traccia dell'esistenza che aveva riempito quelle case.

Si chiamano candidamente “warning bomb”, quelle cacciate pochi minuti prima dai droni, aerei senza pilota che sorvolano continuamente la terra di Gaza come predatori attenti, con inserita un'alta tecnologia programmata per puntare le prede, mandano un ronzio metallico dal cielo e creano interferenze, qua vengono chiamate in modo familiare “zenana”.
Lo scopo è di rivelare l'obiettivo agli F16 e dovrebbero avvisare gli occupanti dell'imminente distruzione. Purtroppo la frazione tra la bomba di avviso e la distruzione totale è di pochi minuti, tra i tre e i dieci, e il colpo nel tetto spesso non viene percepito dagli abitanti: colti nel sonno, attorniati da bambini, immersi nella vita quotidiana.

Saliamo nel secondo palazzo, è ancora in parte praticabile ma ogni parete è squarciata come un abito che espone un corpo violentato. Intorno resti di vita fanno immaginare la fuga precipitosa di quella notte: vestiti di donna, di uomo, di bambini, si confondono tra i detriti. Dei ragazzi ci accompagnano nel viaggio spettrale, volti sorridenti e ospitali, assuefatti dalle macerie che nascondono migliaia di altri volti.
Dal piano superiore attraversiamo una voragine che ci porta sul tetto del primo palazzo, da sopra mi rendo condo della vastità che occupa il palazzone distrutto, restituendo l'idea del perimetro originario.
Mi indicano un buco di circa cinquanta centimetri: la traccia lasciata dalla zenana.
Questa volta la fortuna ha voluto che non ci fosse gente nel solaio.
Intorno mi accorgo che la distruzione è ben più ampia e, interrotte da giardini e da orti, tra i vicoli stretti sono molte le case sventrate.

Riprendiamo il corso dei vicoli: abbandoniamo macerie per attraversare macerie e raggiungere nuove macerie. Intorno ferite di interni rivelano l'intimità di vite private: armadi, culle, cucine, serramenti nuovi ormai desolati, resti di impianti costruiti a norma.

Cumuli di macerie sono scaldate da un fuoco attorniato da profughi che preparano il tè. Una numerosa famiglia è riunita sulla strada, davanti ai resti della loro esistenza.
Più in là Majed mi mostra nuovi resti, dove prima c'era una casa di due piani, quattrocento metri quadri, cinque appartamenti; il verde sul tetto afflosciato rivela gli avanzi di un giardino curato.
In questa casa la “warning bomb”, oltre a non svolgere la propria funzione di avviso, ha centrato in pieno un bambino di tre anni.
I bambini accampati di fronte alle spoglie hanno ora un amico in meno. Dalla casa vicina esce un ragazzo sulle stampelle, Karam, era un residente, ora è profugo ospite con la famiglia dai parenti vicini. Profugo due volte, prima dalla terra originaria divenuta Israele, poi bombardato dallo stesso potere che cacciò i suoi avi. Viene seguito dal resto della famiglia, racconti di disastri narrati da occhi che sorridono bevendo caffè.

LA MAMMA DI MAJED
Infine ci dirigiamo a casa di Majed, sobria e spaziosa ha fuori un profumato giardino.
La mamma ci accoglie con un bel sorriso, dietro una montatura ovale di metallo due occhi vispi, che brillano, di chi ne ha viste tante ma è soddisfatta, due guance tonde e rosate completano un quadro di simpatia bonaria ma attenta.
Si uniscono con noi un cugino e una zia, sfollati dalle case visitate.
Come tutti hanno voglia di parlare, raccontare le sofferenze di Gaza, uscire dal recinto che li rende invisibili, nella speranza che una testimonianza straniera, non condannata a una costante detenzione, possa far evadere la loro voce.
Traspare sempre un'identità collettiva nelle loro parole: le distruzioni, i crimini subiti, le terre espropriate lungo i confini, i contadini uccisi mentre lavorano la propria terra, i pescatori bersagliati ai quali viene impedito di pescare, le speculazioni edilizie in cui gli israeliani, in un paradosso kafkiano, guadagnano sulla ricostruzione di ciò che distruggono, gli oltre 11 mila prigionieri politici, l'embargo, l'ingiustizia, la paura continua per ogni civile identificato come un nemico, l' incubo di essere palestinese nella frase che sento dire da tutti: “ci voglio distruggere, ci vogliono tutti morti”.
Chiedo alla mamma cosa è cambiato dal passato e come vede il futuro e risponde: “faremo la fine di Hiroshima, come in Giappone”.

61 ANNI DI BOMBARDAMENTI DA CIELO
da “La pulizia etnica della Palestina”
di Ilan Pappe
“Da Luglio [1948] in poi gli aerei furono usati in modo spietato nelle operazioni di pulizia etnica per costringere gli abitanti dei villaggi a un esodo di massa e colpirono indiscriminatamente chiunque non fosse in grado di ripararsi in tempo. [...]
Al-Hajj Abu Salim aveva 27 anni e una figlia adorata, quando il villaggio (Suffuriyya) fu preso. Sua moglie aspettava un altro figlio e lui ricorda la calda casa di famiglia con suo padre, uomo gentile e generoso, uno dei più ricchi contadini del villaggio. Per Abu Salim la Nakba iniziò con la notizia della resa di altri villaggi. “Quando la casa dei tuoi vicini è in fiamme incomincia a preoccuparti” è un noto detto arabo che esprime l'agitazione e la confusione degli abitanti dei villaggi nel mezzo della catastrofe.
Suffuriyya fu uno dei primi villaggi che le truppe israeliane bombardarono dal cielo. In luglio molti altri sarebbero stati terrorizzati in questo modo, ma in giugno era ancora evento raro. Le donne atterrite afferrarono i bambini e velocemente cercarono riparo nelle vecchie caverne lì intorno. Gli uomini prepararono i loro rozzi fucili per l'inevitabile attacco.[...] Il bombardamento aereo fu seguito dall'attacco di terra, non solo al villaggio ma anche alle caverne. “Le donne e i bambini furno subito trovati dagli ebrei e mia madre fu uccisa dai soldati”, raccontò a un quotidiano 53 anni dopo.”

Da allora questa cronaca non ha più avuto interruzioni e si ripete nelle dinamiche per quello che Poppe nel suo testo storico accurato dimostra: una pulizia etnica che la Comunità Internazionale continua a ignorare.

domenica 5 aprile 2009

UNA FLOTTA DI AQUILONI


di Marcello Sordo, gaza

30 marzo.

Oggi ho bigiato la mattina di lavoro al Pronto Soccorso di Al Awda Hospital.

L'amico Majed, dirigente dell'Unione dei Giovani Progressisti, mi aveva invitato alla loro manifestazione per il “Land Day”, conosciuta in arabo come “Youm Al-Ard”.

La “Giornata della Terra” è ricordata da tutti i palestinesi in Israele, nei Territori Occupati e in tutti i campi profughi disseminati in Medio Oriente.


Il 30 marzo 1976 ci fu uno sciopero generale nelle città arabe della Galilea, in risposta all'annuncio del Governo israeliano della confisca di migliaia di ettari di terra palestinese. La giornata di manifestazioni pacifiche si concluse con l'intervento di carri armati e costò la vita di sei palestinesi, il ferimento di altri 96 e l'arresto di oltre 300 manifestanti.

Le Autorità Israeliane confiscarono 5.500 ettari di terra e dichiararono tutti i villaggi e le città palestinesi come territori chiusi e soggetti a occupazione militare e coprifuoco. Tutte quelle terre sono oggi occupate da insediamenti israeliani illegali.

Dal 1967 Israele ha confiscato più di 750 mila acri di terra palestinese, la maggior parte della quale per fare spazio a nuove colonie e per costruire strade di accesso alle colonie stesse a solo uso esclusivo dei coloni ebrei, ulteriore fattore di esclusione e di Apartheid. Dal 1948 ben l' 85% delle terre appartenute a palestinesi sono state confiscate, molte delle quali portate via agli oltre 800 mila profughi che allora vennero cacciati.


Majed è in testa alla manifestazione in cordone con gli altri quadri, alcuni dei quali reduci dalle prigioni israeliane. Il corteo che segue è molto colorato anche se mostra una certa disciplina e ordine nella formazione. Due ali del corteo sono formate da colonne di ragazzi armati di scudi di carta, con i colori della bandiera e mossi da frange, alcuni con il disegno della chiave al centro, simbolo del ritorno alle proprie case per gli attuali oltre 4 milioni e mezzo di profughi; in testa un ragazzo con il viso dipinto porta uno scudo rosso, a simbolo del Fronte Popolare di Liberazione. Tutti hanno bande rosse annodate intorno alla fronte, chi al braccio, a esprimere un'attitudine guerriera e fiera, a ricordare una iconografia indiana, di chi lotta per la propria terra e autodeterminazione.

Abbiamo sfilato per il centro di Gaza, oltre l'ospedale Shifa che ha accolto il più alto numero di feriti durante l'ultimo attacco (1180 casi). Siamo passati sotto il Parlamento disintegrato, malgrado l'enorme mole della struttura collassata su se stessa. Sfugge il senso di bombardare il parlamento, improbabile rampa per qassam di latta, da parte di un paese che usa la retorica della democrazia per seminare guerre.

Abbiamo seguito il lungo Corso, accompagnato al centro da giardini fioriti e curati, ricco di alberi e piante, all'ombra dei quali i cittadini sono soliti riunirsi e spendere il proprio tempo libero. Ai lati la varietà dei negozi non fa pensare a una città sotto assedio e la quantità delle merci esposte invita a una più attenta analisi sull'impatto dell'embargo e sull'importanza dei tunnel.

Il Corso, che declina verso il mare, per la struttura e l'animosità ricorda le Ramblas spagnole, che non a caso derivano il proprio nome dall'arabo Raml, ossia “sabbia”, a indicare una strada che ricopre il letto di un fiume.

Passati oltre un grande manifesto con l'immagine dello storico Presidente Arafat, che stranisce per il potere consolidato di Hamas nella Striscia e la conseguente cacciata di Fatah, arriviamo davanti alla Stazione di Polizia di Saraja, rasa al suolo dagli F16 il 27 dicembre con dentro una massa di cadetti mentre venivano addestrati.

Il lungo Corso si chiama Omar Al Makhtar Street, in ricordo del valoroso partigiano, conosciuto anche come il Leone del Deserto, che tra il 1911 e il 1931 combatté contro l'occupazione italiana in Libia. Proseguirebbe verso il quartiere centrale di Saha, colorato suk di Gaza City che ospita un elegante Municipio, ma il corteo si ferma per essere caricato su dei pullman.

Ci si sposta verso la famigerata Linea Verde.


Attraversiamo Ash Shuja'ieh, un popoloso quartiere a est, nel traffico dell'ora di punta. Sempre più a est arriviamo alle ultime case intorno a un grande spiazzo.

Dopo una distesa di campi, resi impraticabili dai cecchini israeliani, c'è Israele, con i suoi alberi,da questo lato estirpati dai tanks.

Il precedente corteo si trasforma in una festa, ragazzi iniziano a correre in cerchio sventolando bandiere rosse, un pulmino, con gli amplificatori montati sul tetto, manda musica di lotta e di patria, i ragazzi con gli scudi di carta prendono posizione, studiano il vento, iniziano a tendere corde dagli scudi che, vibranti, prendono il volo.

Su, nel cielo, danzano le frange, i colori della Palestina, sopra ogni altro aquilone quello rosso, come a mandare un segno di speranza e di estrema libertà, oltre le rappresentazioni nazionali per un bene comune oltre ogni frontiera, oltre ogni razzismo.


Al ritorno vengo assalito dai ragazzi del pullman, la festa prosegue fino alla loro sede, mi chiedo la mail, il telefono, ci facciamo foto abbracciati, mi chiedono cosa si dice in Europa del dramma palestinese, dei crimini contro loro commessi. Domande a cui è sempre difficile rispondere. La follia di questo totale isolamento dal resto del Mondo li mantiene in una perenne tensione verso l'esterno, una vitale tensione frustrata da anni.


Con Majed, suo fratello e altri due amici ci spostiamo verso la spiaggia per andare a mangiare. Con loro Basel, è alto ed elegante, un franco sorriso rivela una persona riflessiva, è tornato da sei mesi, dopo due anni di prigionia in Israele. La giornata è già stata piena di avvenimenti, così ci promettiamo un prossimo appuntamento, in cui mi parlerà della sua esperienza, dalle prigioni israeliane che accolgono oltre 11 mila prigionieri politici.


Sulla spiaggia ci accomodiamo sopra un barcone arenato sulla sabbia fine, un vecchio peschereccio. Mangiamo riso con pollo alle mandorle, una delizia. Un normale pomeriggio al sole di primavera di ragazzi che vivono affacciati sul Mediterraneo.

Ma dal mare arrivano i colpi sordi, sparati contro i pescatori che non possono superare le tre miglia.


Oggi il senso di accerchiamento è completo.


Assediamo l'assedio.