di Marcello Sordo, Gaza
Lunedì prossimo, dopo 37 giorni vissuti dentro l'ospedale Al Awda, mi trasferisco ad Al Jabalà, quartiere popolare tra la periferia di Jabalia e Gaza City. Sarò ospite di una cara famiglia che mi ha accolto con l'affetto e il calore che, dalle nostre parti, si è soliti riservare agli amici o familiari più stretti.
Il valore dell'ospitalità qua è un valore assodato e non sbiadito, appartiene ancora a concetti di sacralità che rendono la convivenza armonica e dinamica, nei gesti gratuiti di scambio che generano rispetto e alterità, dentro a rituali che sostengono una cultura sociale consolidata, ben oltre i mutevoli rapporti interpersonali.
Venerdì scorso, il giorno festivo nei paesi musulmani, ero a pranzo dalla famiglia. Abbiamo mangiato dell'ottimo Maftul, il locale Cous cous. E' ancora abitudine che si mangi tutti intorno al grande piatto farcito dalla pietanza, con grandi pezzi di carne al centro che si dividono e condividono con le mani, intorno piattini ricolmi di insalate, salse, olive e tutto ciò che fa venire in mente una dieta mediterranea. Per me hanno riservato un piatto a parte, per rispetto delle mie usanze europee, anche se sarei stato ben felice di mangiare in comune con i miei amici; però la cosa si è fatta divertente perché il ragazzino di 13 anni affianco, dagli occhi intensi e vispi tipici, continuava a riempirmi il piatto di cous cous, mentre la mamma e poi il papà mi allungavano pezzi di carne, con sorrisi dolci che invitano l'appetito.
Il rispetto delle usanze altrui è evidente in tante manifestazioni e la naturalezza nell'adempiere agli obblighi sociali e religiosi non mette mai in imbarazzo l'ospite.
Credo che uno dei più grandi insegnamenti che sto acquisendo risiede nella convivenza civile e nel rispetto dell'altro, non contaminato da alcun desiderio di redimere o educare chi è diverso ma con la semplice richiesta di essere rispettati nei propri precetti.
Un piccolo esempio l'ho avuto in taxi alcune sere fa. Nel caricare un nuovo cliente, l'autista ha interrotto un pezzo di musica popolare, pur non avendo avuto alcuna richiesta. Alla dipartita del cliente, l'autista ha riattivato la musica, niente male oltretutto. Da lì ho dedotto che il fugace avventore doveva essere un religioso e che al taxista non pesava affatto interrompere per un momento il suo piacere.
Durante il pasto la mamma mi ha raccontato che è tradizione che al venerdì una famiglia cucini per i vicini, così mi diceva che altre quattro famiglie si stavano gustando quella delizia, che così diventava ancora più gustosa.
Convivenza e rispetto, accoglienza delle altre culture, dall'osservazione mi vengono in mente letture in cui si parla di come cristiani ed ebrei abbiano vissuto inseriti in società musulmane, in pace per secoli. Mi viene in mente come circa 20 mila giudei vivano in Iran, malgrado Ahmadinejad venga accusato di antisemitismo ogni giorno dai Media Occidentali, penso alle culture diverse che sono state accolte per tanto tempo in seno alla cultura araba, ora sanguinante e umiliata. Penso alla società multi confessionale dominata da Saddam Hussein, laica e ricca di cultura, sapere, università, avanguardia del mondo arabo per professionisti, intellettuali, scienziati. Oggi arretrata di secoli in soli sei anni e dominata dal fondamentalismo religioso, con la propria intellighenzia sterminata o fuggita a causa di squadroni della morte di dubbia natura.
E ripenso alla Nakba, che ha spazzato una secolare convivenza dove poteva capitare che un Imam di una moschea fosse guardiano della chiesa e del monastero cristiano, all'interno dello stesso villaggio (Sirin, distrutta il 12 maggio 1948, insieme alla moschea, la chiesa e il monastero).
La buona famiglia
Il papà Abu Majed è alto e grande, austero e bonario, senza un filo di grasso mantiene la struttura di un atleta, in casa è premuroso con la moglie Halena, alla quale è sempre affianco nelle faccende domestiche. Halena è infermiera e lavora per le Nazioni Unite, come il marito. Con lei ci perdiamo in chiacchierate sulla professione, la famiglia, la vita, è apprensiva verso i figli come tutte le mamme del mondo, perché non esistono mamme che sognano il martirio dei propri figli, come una certa stampa salottiera e compiacente vuole far credere.
Le tre sorelle Majd, Shahed e Tamama, tra i diciannove e i sedici anni, sono tutte bellissime, piene di vita e di sogni, studentesse un po' giudiziose e un po' ribelli, come tutte le adolescenti del mondo inseguono la propria primavera, giocano con gli sbalzi di umore, godono e soffrono per la stagione romantica che le attraversa, tra lunghe telefonate e momenti perduti davanti a qualche telenovela.
Mohammad è l'ultimo della famiglia, di tredici anni, iperattivo insegue il mondo a cavallo della sua bicicletta piena di frange e colori, con dietro volante la bandiera di Palestina.
Majed è il mio amico che già da Genova conoscevo grazie alla tecnologia, skype, internet. Tutti strumenti che hanno aggiornato il Mondo sul dramma palestinese, sui crimini consumati dall'esercito israeliano durante i 22 giorni di terrore, che hanno mostrato bambini, donne, uomini freddati da una furia che considerava ipocritamente “nemico” tutto ciò che si muoveva, comprese ambulanze, animali, bandiere bianche e dell'ONU sventolanti.
L'orrore che ha mantenuto un milione e mezzo di persone perennemente dentro l'incubo di una roulette russa in cui chiunque, random, poteva essere ammazzato è uscito dalle libere pagine del web, dai resoconti dei volontari umani che avevano sfidato l'assedio per venire in soccorso a questa gente e, da sotto le bombe, informavano coraggiosamente il mondo insieme ai tanti fratelli palestinesi armati di macchine digitali per foto e video e di soli computer.
Majed ha vent'anni, il fratello maggiore della famiglia, ricurvo sotto il peso dell'inseparabile computer gira per Gaza a caccia del proprio futuro, si propone, progetta, vuole essere protagonista di una ricostruzione in cui pochi credono. Non sembra seguire una stirpe guerriera ma piuttosto, come un poeta, rimane sospeso tra un temperamento soave e un'adolescenza bruciata, estirpata, teso tra un istinto di fuga che gli fa sognare l'Europa, come la terra promessa dove non piovono bombe, e l'ambizione del sognatore che si vorrebbe prodigare per i bambini di Gaza, trascurando gli impegni all'università.
Una bella famiglia, una famiglia che si potrebbe considerare fortunata e di buoni principi. Una famiglia che conduce la propria lotta quotidiana con il lavoro, le buone maniere, la giusta educazione per i figli e che, tra le bombe, al buio, senza cibo né acqua, danzavano e ballavano in giro per la sala ammazzando il tempo, un lunghissimo tempo.
Lunedì prossimo, dopo 37 giorni vissuti dentro l'ospedale Al Awda, mi trasferisco ad Al Jabalà, quartiere popolare tra la periferia di Jabalia e Gaza City. Sarò ospite di una cara famiglia che mi ha accolto con l'affetto e il calore che, dalle nostre parti, si è soliti riservare agli amici o familiari più stretti.
Il valore dell'ospitalità qua è un valore assodato e non sbiadito, appartiene ancora a concetti di sacralità che rendono la convivenza armonica e dinamica, nei gesti gratuiti di scambio che generano rispetto e alterità, dentro a rituali che sostengono una cultura sociale consolidata, ben oltre i mutevoli rapporti interpersonali.
Venerdì scorso, il giorno festivo nei paesi musulmani, ero a pranzo dalla famiglia. Abbiamo mangiato dell'ottimo Maftul, il locale Cous cous. E' ancora abitudine che si mangi tutti intorno al grande piatto farcito dalla pietanza, con grandi pezzi di carne al centro che si dividono e condividono con le mani, intorno piattini ricolmi di insalate, salse, olive e tutto ciò che fa venire in mente una dieta mediterranea. Per me hanno riservato un piatto a parte, per rispetto delle mie usanze europee, anche se sarei stato ben felice di mangiare in comune con i miei amici; però la cosa si è fatta divertente perché il ragazzino di 13 anni affianco, dagli occhi intensi e vispi tipici, continuava a riempirmi il piatto di cous cous, mentre la mamma e poi il papà mi allungavano pezzi di carne, con sorrisi dolci che invitano l'appetito.
Il rispetto delle usanze altrui è evidente in tante manifestazioni e la naturalezza nell'adempiere agli obblighi sociali e religiosi non mette mai in imbarazzo l'ospite.
Credo che uno dei più grandi insegnamenti che sto acquisendo risiede nella convivenza civile e nel rispetto dell'altro, non contaminato da alcun desiderio di redimere o educare chi è diverso ma con la semplice richiesta di essere rispettati nei propri precetti.
Un piccolo esempio l'ho avuto in taxi alcune sere fa. Nel caricare un nuovo cliente, l'autista ha interrotto un pezzo di musica popolare, pur non avendo avuto alcuna richiesta. Alla dipartita del cliente, l'autista ha riattivato la musica, niente male oltretutto. Da lì ho dedotto che il fugace avventore doveva essere un religioso e che al taxista non pesava affatto interrompere per un momento il suo piacere.
Durante il pasto la mamma mi ha raccontato che è tradizione che al venerdì una famiglia cucini per i vicini, così mi diceva che altre quattro famiglie si stavano gustando quella delizia, che così diventava ancora più gustosa.
Convivenza e rispetto, accoglienza delle altre culture, dall'osservazione mi vengono in mente letture in cui si parla di come cristiani ed ebrei abbiano vissuto inseriti in società musulmane, in pace per secoli. Mi viene in mente come circa 20 mila giudei vivano in Iran, malgrado Ahmadinejad venga accusato di antisemitismo ogni giorno dai Media Occidentali, penso alle culture diverse che sono state accolte per tanto tempo in seno alla cultura araba, ora sanguinante e umiliata. Penso alla società multi confessionale dominata da Saddam Hussein, laica e ricca di cultura, sapere, università, avanguardia del mondo arabo per professionisti, intellettuali, scienziati. Oggi arretrata di secoli in soli sei anni e dominata dal fondamentalismo religioso, con la propria intellighenzia sterminata o fuggita a causa di squadroni della morte di dubbia natura.
E ripenso alla Nakba, che ha spazzato una secolare convivenza dove poteva capitare che un Imam di una moschea fosse guardiano della chiesa e del monastero cristiano, all'interno dello stesso villaggio (Sirin, distrutta il 12 maggio 1948, insieme alla moschea, la chiesa e il monastero).
La buona famiglia
Il papà Abu Majed è alto e grande, austero e bonario, senza un filo di grasso mantiene la struttura di un atleta, in casa è premuroso con la moglie Halena, alla quale è sempre affianco nelle faccende domestiche. Halena è infermiera e lavora per le Nazioni Unite, come il marito. Con lei ci perdiamo in chiacchierate sulla professione, la famiglia, la vita, è apprensiva verso i figli come tutte le mamme del mondo, perché non esistono mamme che sognano il martirio dei propri figli, come una certa stampa salottiera e compiacente vuole far credere.
Le tre sorelle Majd, Shahed e Tamama, tra i diciannove e i sedici anni, sono tutte bellissime, piene di vita e di sogni, studentesse un po' giudiziose e un po' ribelli, come tutte le adolescenti del mondo inseguono la propria primavera, giocano con gli sbalzi di umore, godono e soffrono per la stagione romantica che le attraversa, tra lunghe telefonate e momenti perduti davanti a qualche telenovela.
Mohammad è l'ultimo della famiglia, di tredici anni, iperattivo insegue il mondo a cavallo della sua bicicletta piena di frange e colori, con dietro volante la bandiera di Palestina.
Majed è il mio amico che già da Genova conoscevo grazie alla tecnologia, skype, internet. Tutti strumenti che hanno aggiornato il Mondo sul dramma palestinese, sui crimini consumati dall'esercito israeliano durante i 22 giorni di terrore, che hanno mostrato bambini, donne, uomini freddati da una furia che considerava ipocritamente “nemico” tutto ciò che si muoveva, comprese ambulanze, animali, bandiere bianche e dell'ONU sventolanti.
L'orrore che ha mantenuto un milione e mezzo di persone perennemente dentro l'incubo di una roulette russa in cui chiunque, random, poteva essere ammazzato è uscito dalle libere pagine del web, dai resoconti dei volontari umani che avevano sfidato l'assedio per venire in soccorso a questa gente e, da sotto le bombe, informavano coraggiosamente il mondo insieme ai tanti fratelli palestinesi armati di macchine digitali per foto e video e di soli computer.
Majed ha vent'anni, il fratello maggiore della famiglia, ricurvo sotto il peso dell'inseparabile computer gira per Gaza a caccia del proprio futuro, si propone, progetta, vuole essere protagonista di una ricostruzione in cui pochi credono. Non sembra seguire una stirpe guerriera ma piuttosto, come un poeta, rimane sospeso tra un temperamento soave e un'adolescenza bruciata, estirpata, teso tra un istinto di fuga che gli fa sognare l'Europa, come la terra promessa dove non piovono bombe, e l'ambizione del sognatore che si vorrebbe prodigare per i bambini di Gaza, trascurando gli impegni all'università.