sabato 28 marzo 2009

IL TIRO AL PICCIONE



di Marcello Sordo, Gaza
foto su http://picasaweb.google.com/urgenzasanitariagaza/ILTIROALPICCIONE#

Attraversiamo le due carreggiate di Salah El Din Road, io e il dottor Marwan.
Più ci spostiamo a est e più si fanno evidenti i segni della distruzione. Ci lasciamo alle spalle alcune officine disintegrate, verso abitazioni civili sempre più colpite dai proiettili e dagli incendi. Iniziamo a salire per un pendio, circondato da frutteti interrotti da vaste distese di fango, a vista d'occhio i palazzi dai quattro ai sei, sette piani, sono squartati da grosse voragini, anneriti dalle fiamme, nulla che ci circonda apparteneva ad avamposti militari palestinesi.
Marwan mi racconta delle passeggiate che tra questi frutteti faceva quando era fidanzato, con un tono romantico e tenero. Giriamo per un bivio e compare la villa sventrata che lo addolora, ciò che rimane della residenza che fu di sua moglie e dei genitori di lei.
Entriamo, da ogni muro e soffitto ci sono squarci che rivelano i campi circostanti, l'azzurro del cielo. Marwan è premuroso e mi avvisa di fare attenzione mentre superiamo calcinacci e attraversiamo precarie passerelle sospese sulle scale mozzate. In certi punti le maglie del cemento armato sono nude e sole a mantenere insieme pezzi di muro. Nel salire al piano superiore mi indica dove era solito appartarsi con Sara, dove ci fu il primo bacio. Sopra un enorme squarcio, che ha eliminato per intero una parete, mette a nudo i resti di quello che doveva essere un vasto salotto, parte di una camera da letto, tendaggi ancora penzolanti conservano una antica eleganza, tra mobili traforati dai proiettili e corredi persi nella polvere. Un libro di microbiologia sgualcito, aperto a terra come in un atto di resa, mi guida verso una veranda dove trovo uno studiolo, un ammasso di libri e quaderni sono stati abbattuti sulla scrivania dalla libreria, crivellati di colpi. Ci si muove verso le camere appartenute all'infanzia, superando un computer arrostito, dove bambole di pezza han perso il proprio colore sgargiante, buttate tra libri di grammatica araba e inglese.
Tornati al salone l'espressione di Marwan è sconsolata, allarga le braccia, si domanda perché, non trova un senso a tanta distruzione, mi indica fuori l'altro lato della collina, dove erano appostati i soldati israeliani. La casa era ormai vuota, nessun miliziano nelle vicinanze, eppure i soldati hanno speso ore a mitragliare la casa, che non arrecava alcuna minaccia. Tutta una vita, il senso di una famiglia, ogni cosa andata perduta. Gli chiedo se gli sono rimaste delle foto dell'abitazione, ma niente, anche i ricordi si sono svaniti.

Ci spostiamo a qualche centinaio di metri, siamo solo agli inizi del viaggio, tutte le case degli zii della moglie sono andate distrutte, e non solo.
Ci addentriamo in un villaggio dove, fino a dicembre, una zona povera doveva convivere con una parte residenziale, ora non si riesce a distinguere più nulla.
Ci soffermiamo in un centro clinico della Mezza Luna Rossa, con un parco di ambulanze all'esterno che durante l'aggressione erano attive con l'ospedale Al Awda. Scambiamo due chiacchiere con i militi, mi raccontano di essere stati un interessante bersaglio per i fucili israeliani. Guardo in alto e non c'è più un vetro integro, i muri del primo piano son tutti traforati dalle pallottole. Riconosco il posto, filmato il giorno prima dall'emittente Al Jazeera in un servizio sugli attacchi subiti dai soccorritori e dagli ospedali.
Lungo il villaggio veniamo accolti da un nuvolo di bambini, sono chiassosi, percepisco un approccio troppo invasivo, mi arriva una patta sulla schiena non troppo amichevole; nei loro visi sorridenti intravedo una smorfia, il dolore che ha attraversato le loro giovani menti deve essere qualcosa di irreparabile, i lutti e i traumi che devono avere subito richiederebbero strategie e cure spropositate, come spropositati sono stati gli armamenti che gli sono piovuti addosso. Marwan manifesta preoccupazione per i disordini post-traumatici vissuti da questi bambini.

Scolliniamo e l'oltre appare lunare.
Intorno focacce di cemento armato, sterpaglie e terra; disseminate sembrano avere subito il passaggio di un pachiderma. Una casa, in cui un muro portante deve aver retto, è collassata sui lati, mantenendo una colonna nel centro, ora assume la forma grottesca ti un enorme tipee indiano in cemento, sotto un falò brucia, probabile unico pericoloso riparo rimasto, o folle e orgogliosa permanenza dentro a una proprietà perduta, visto che, mediamente, tutte le famiglie sfollate trovano riparo presso parenti, Governo o UNRWA.
A sinistra su un promontorio, circondato dal poco verde rimasto e dai reticolati, un grande compound dell'URWA pieno di viveri, a destra, oltre le macerie di una casa disintegrata, una vasta distesa di tende su un polveroso spazio, una volta occupato dal verde degli alberi.
Marwan mi indica quest'ultima casa. Poi si rivolge al promontorio alle spalle, dove i soldati si erano appostati. Con i megafoni avevano intimato alla famiglia di uscire, rispettivamente la zia e tre cugine di Sara. Uscite mani in alto, con una sola bandiera bianca, sono state abbattute, a sangue freddo. Due bambine, di sette e cinque anni, sono morte sul colpo, mentre la mamma, Souad, e la sorellina di quattro anni sono ora ricoverate in Belgio, in pessime condizioni. Osservo i pochi metri che separavano l'arbusto dietro cui stavano i soldati e la casa, uno spazio in cui si può riconoscere il colore dell'iride e percepire la luce negli occhi.
Mi perdo nello spazio infinito davanti a noi, a est, la strada sterrata declina verso le ultime baracche di contadini, uomini e ragazzi stanno tornando dai campi, chi a piedi, chi trainato su carretti dai muli. Una grande distesa verde e gialla raggiunge l'orizzonte dove alti svettano gli alberi, laggiù è Israele, a un tiro di schioppo; fino a pochi anni fa qua viveva una rigogliosa foresta, maciullata da giganteschi buldozer. Ci troviamo su una linea invisibile e invalicabile, benché manchino un paio di chilometri al confine, tutta la terra palestinese davanti è abbandonata, chiunque vi entri verrà abbattuto dalle guardie di frontiera laggiù invisibili. Si intravede minuscolo un sontuoso santuario, intorno c'era un cimitero che è stato completamente bombardato. Marwan mi dice che di notte, nella posizione in cui siamo, diverremmo i bersagli dei cecchini, perciò i contadini fanno presto a rientrare, sanno che qui non si fanno sconti.

L'International Solidariety Movement si sta adoperando per proteggere i contadini che lavorano la terra in prossimità della “Linea Verde”.
Dal cessate il fuoco sono stati colpiti i rispettivi lavoratori:
Il 18 gennaio Abu Rajileh (24) del villaggio di Khoza’a, colpito a morte mentre lavorava il suo appezzamento a 400 metri dalla linea verde.
Il 20 gennaio al-Astal (42) di Al Qarara (vicino Khan Younis), colpito al piede destro.
Il 27 gennaio Anwar al Buraim è stato colpito al collo a morte.
Il 18 febbraio Mohammad Il Ibrahim (20) colpito alle gambe, mentre caricava prezzemolo sul suo carro, a 550 metri dalla linea verde. I contadini stavano lavorando insieme agli attivisti internazionali da due ore, a vista rispetto alle guardie israeliane, e stavano abbandonando la zona quando senza motivo sono stati bersagliati.
(dati forniti da
http://palsolidarity.org/2009/03/5482HYPERLINK "http://palsolidarity.org/2009/03/5482" )

All'imbrunire il sole scompare tra le macerie, intorno i primi fuochi dei profughi.
Volgiamo a ovest quando ci imbattiamo, dopo pochi metri, con due signori distinti, di un'austerità tipica delle province rurali nostre, personaggi che si possono facilmente incontrare nelle nostre campagne, chessò, in Toscana o in Emilia.
Marwan mi presenta uno zio di Sara, Mohamad Abu Fadi, che ci porta a vedere i resti della sua casa.
A poche centinaia di metri dal massacro raccontato, ci troviamo davanti alla sua villa
collassata su se stessa, entriamo dentro a quel poco che rimane, mentre Mohamad racconta, con il viso paonazzo dal dolore, gli occhi lucidi, i giorni circondati dai
tank, ci indica le case intorno con le feritoie sui muri create dai cecchini. Aveva un vasto giardino con tutti i frutti della macchia mediterranea, davanti una vasta coltura di limoni e aranci, tutto distrutto e sradicato dai bulldozer, come la sua stessa casa, da poco costruita. Marwan mi racconta come, solo un paio di giorni prima dell'occupazione, fosse tutta la famiglia riunita nel patio scomparso, a godersi l'aria dei campi.
Mohamad racconta di quanta cura avesse per la sua casa, di quando smontò i serramenti, nel timore che le esplosioni rompessero i vetri; della casa gli sono rimasti solo quelli. Dice che il Governo gli risarcirà la perdita ma lui ha timore di ricostruire, permanentemente minacciato, sotto scacco, con l'incubo che presto Israele allargherà ulteriormente i suoi confini, fino ad arrivare alla sua casa, annettendosi ogni cosa, uccidendo ed espellendo l'umanità che vi risiede. Guardo ancora intorno la terra nuda e il fango, dove due mesi prima viveva un giardino e trovo incomprensibile l'accanimento contro le colture.

Nel buoi facciamo ritorno verso Jabalia, continua la conta di Marwan, di un'altra cugina della moglie uccisa da una fucilata a soli venticinque anni, rammenta con dolore quanto era bella e ancora di un altro cugino a cui hanno sparato e di un altro ancora, a soli diciassette anni, abbattuto perché un combattente, l'unico della famiglia.
In un grande slargo noto un grande tendone, dentro è una distesa di colorati tappeti, e chiedo spiegazione. In quello spazio a dicembre c'era una moschea, ora ai fedeli è rimasto un riparo di plastica .

L'ultima visita è di piacere, dal nonno di Marwan, lo descrive forte e vitale nei suoi settant'anni, residente originario di Jabalia, a dispetto dei 150 mila profughi che ora la abitano. I residenti originari sono solo duemila, di quando quest'area, a nord di Gaza City, era un giardino fiorito.
Appena superato Salah El Din Road mi indica una vecchia villa circondata da mura che ricordano vecchie tenute signorili tipiche del nostro sud. Era la residenza del nonno, abbandonata a gennaio, prima che diverse bombe piovessero da un F16.
Il nonno mi accoglie con un bel sorriso, i suoi capelli bianchi brillano sotto la luna, la fronte spaziosa e la pelle abbronzata mi ricordano il mio nonno calabrese Eugenio, a volte nei tratti sembriamo tutti usciti dallo stesso pentolone che si chiama Mediterraneo.
Nel patio è buoi, se non per una flebile torcia, i black out sono la norma, uno dei cari prezzi dell'assedio, ma questo non ci nega di bere un caldo tè in buona compagnia.
Sopra un manto di stelle ci sovrasta e per la prima volta riconosco la costellazione del Sagittario.

venerdì 27 marzo 2009

IL DOTT. MARWAN ASALYA

di Marcello Sordo, Gaza

Mi sono trattenuto a chiacchierare con il dott. Marwan Asalya, un giovane chirurgo che, qui all'ospedale, appare una promessa nelle tecniche di chirurgia endoscopica. E' massiccio e affabile, parla un inglese fluente, ha vissuto in diversi paesi, tra cui Arabia Saudita, Inghilterra ed Egitto.
Trattiene sul viso la freschezza di un adolescente, ride e scherza, gioca con i colleghi
intonando il dialetto beduino, esprime un umore cordiale e spiritoso tipico di tanta gente qua incontrata.
Mi invita a pranzo in una casa elegante di Jabalia. Da tre anni è tornato a Gaza per sposare Sara, la giovane moglie alla quale era promesso. E' alta e luminosa, fiera della propria cucina ha preparato un'ottima pizza, insieme a una gustosissima orata, frutto di una pericolosa pesca nel mare assediato. Hanno un bimbo di dieci mesi che gattona per il salotto, sul prezioso tappeto è l'immagine dell'infanzia beata nel tepore borghese.
La normalità della vita, nei rapporti, sulla strada che ogni giorno incontro mi meraviglia. Pare che il carattere solare intrinseco a questo popolo, che si affaccia sul Mediterraneo, sia inalienabile e mi ricorda, scusate l'immagine, una vecchia foto degli inizi del '900, in cui un operaio anarchico se la ride mentre le guardie lo portano via.
Mi accompagna sul tetto e inizia il racconto.

Alcuni giorni prima mi aveva disegnato una mappa dell'area. La via sottostante è trafficata, duecento metri a est si congiunge con Salah El Din Road, una delle principali arterie che uniscono il nord con il sud della Striscia.
Oltre il Corso le case si diradano verso la campagna, fino a Israele. All'orizzonte i promontori, dove le truppe israeliane a gennaio presero posizione colpendo, con cecchini e carri armati, tutto ciò che si muoveva e, quando nulla si muoveva, colpendo le case di tutta l'area senza tregua, finché si attestarono, di distruzione in distruzione, a un centinaio di metri dalla casa di Marwan. Il chirurgo era in ospedale assorbito da un lavoro frenetico tra sala operatoria e pronto soccorso quando seppe che la sua famiglia e, nel palazzo accanto, i suoi genitori, erano sotto il tiro impietoso.
Nell'arco di un paio di giorni si sono susseguite varie carneficine tutto intorno.
In un momento di tregua apparente un po' di gente si era accalcata davanti a un ristorante sulla via, esausti dalla fame, quando i cecchini hanno iniziato la loro missione uccidendone cinque, poco più in là due bambine sono state freddate, una centrata alla testa; sull'asfalto sono ancora visibili i colpi di cannone e un palazzo di otto piani è ora pericolante per le colonne portanti disintegrate. Il peggio è arrivato quando Marwan ha ricevuto la notizia di una donna centrata, mentre era riparata in casa, in pieno dal colpo di un carro armato sulla sua via, affianco a una banca, dove risiede. Momenti febbrili di disperazione e impotenza, con tutte le comunicazioni isolate. Saprà più tardi che era la vicina del palazzo che si affaccia sul suo giardino, passeranno giorni a raccogliere i minuscoli pezzi rimasti intorno. In quei giorni, passati strisciando per casa per evitare la solerzia dei cecchini, il padre ha avuto il coraggio di distribuire acqua al vicinato, dato che erano gli unici a possedere una capiente cisterna e potenti generatori per pomparla. Riusciranno, giorni dopo, a evacuare la zona per l'intervento di un amico delle Nazioni Unite al quale, con una macchina contrassegnata, gli verrà concesso di approssimarsi alla zona.
La famiglia intera dovette camminare per un centinaio di metri verso il mezzo, protetta dal tiro dei fucili solo da una bandiera bianca, con la consapevolezza di come il segnale di resa contasse poco, visto che giorni prima una stessa bandiera si era impregnata del sangue di alcuni parenti di Sara.
Dall'alto guardo intorno la devastazione, è il primo giorno di tepore che rivela la primavera, laggiù un minareto conserva la sua vetta per un miracolo o un gioco di ingegneria, squarciato a metà dell'altezza da parte a parte, l'azzurro che lo attraversa diventa un ferita nel cielo.

Dopo la panoramica dalla graziosa casa è il momento di uscire, mi porta verso est, la linea del fronte, se mai si può chiamare “guerra” la mattanza di civili, lontani da qualsiasi formazione combattente palestinese. Mi accompagna nel luogo dove zii e cugini della moglie sono stati freddati e dove hanno distrutto quattro case dei parenti di lei, compresa la villa dei genitori.

Ma, prima di proseguire nel riportare gli avvenimenti dello scorso gennaio, avrei piacere di condividere la lettura che in questi giorni mi ha fatto comprendere molto della cosiddetta “questione palestinese”.
Lo storico ebreo Ilan Pappe, in “La pulizia etnica della Palestina”, così racconta il massacro del 9 aprile 1948 a Deir Yassin, villaggio su una collina a ovest di Gerusalemme, che aveva stipulato un patto di non aggressione con i paramilitari sionisti dell'Haganà.
“Come irruppero nel villaggio, i soldati ebrei crivellarono le case con le mitragliatrici, uccidendo molti abitanti. Le persone ancora in vita furono radunate in un posto e ammazzate a sangue freddo, i loro corpi seviziati, mentre molte donne vennero violentate e poi uccise. [...] (Gli ebrei crivellarono) un gruppo di bambini allineati contro un muro [...] Poiché le truppe ebraiche consideravano ogni villaggio palestinese una base militare nemica, la distinzione tra massacrare gli abitanti e ucciderli in “battaglia” era di scarsa importanza, Bisogna solo dire che tra le persone massacrate vi erano trenta neonati; si capisce così che il calcolo quantitativo - che gli israeliani hanno ripetuto, nell'aprile 2002, nel massacro di Jenin – è privo di senso.”
Albert Einstein, insieme a ventisette importanti personaggi ebrei di New York, condannò sul New York Times il massacro di Deir Yassin in una lettera pubblicata il 4 dicembre 1948, osservando che “bande di terroristi avevano attaccato questo pacifico villaggio, che non era un obiettivo militare nella guerra, e ucciso la maggior parte dei suoi abitanti – 240 tra uomini, donne e bambini – e tenuti pochi di essi in vita per mostrarli come prigionieri nelle strade di Gerusalemme. La maggioranza della comunità ebraica fu inorridita per l'evento, e l'Agenzia ebraica inviò un telegramma di scuse a re Abdullah di Transgiordania. Ma i terroristi, lontani dal provare pentimento per le loro azioni, furono orgogliosi del massacro, ne diedero ampiamente notizia e invitarono tutti i corrispondenti nel paese a vedere i mucchi di cadaveri e la distruzione completa di Deir Yassin”

In sessantun anni il modo di operare dell'esercito israeliano ha mantenuto una coerenza sconvolgente, conseguendo il costante obiettivo di portare via più terra possibile ai nativi palestinesi, uccidendone il più alto numero e provocando terrore, utilizzando il metodo della rappresaglia, di triste italiana memoria, e confondendo i civili con la resistenza. Ha sempre messo in campo una forza militare straordinariamente superiore per poi giocare coi Media al ruolo di vittima assediata.
E' di ieri la cronaca delle magliette sfoggiate per le strade di Israele in cui si inneggia ad ammazzare l'arabo, con disegni di cannocchiali che puntano bambini e donne in cinta velate. Non è molto dissimile dallo sfoggio di cadaveri che, a Deir Yassin, venne fatto ai corrispondenti di tutto il mondo, un mondo che da sessantun anni ignora partecipe.

Dalla prigione a cielo aperto di Gaza

Assediamo l'assedio.

lunedì 23 marzo 2009

SGUARDI DI RESISTENZA DESIDEROSI DI PACE

di Marcello Sordo, Gaza

C'è una linea gialla che improvvisamente diventa rossa dentro il recinto di Gaza.

Ieri l'ho vista tra i video conservati dall'ospedale e negli occhi di Diaa Khalid El Halabi. Coordinatore delle ambulanze e pronti soccorsi della Striscia per il Ministero, portavoce dell'Emergency Medical Committee del UHWC e, infine, infermiere nella Sala Operatoria di Al Awda, quando gli impegni di funzionario non lo occupano.

E' incredibile come qua i confini tra le cariche dirigenti e i lavoratori si assottiglino e la struttura gerarchica assuma un valore puramente funzionale, che crea un'atmosfera di cordialità e collaborazione, di spirito comune nel lavoro svolto. Già ho parlato del Direttore Sanitario che dismette le proprie funzioni primarie per calarsi in Sala Operatoria, mantiene un rapporto caldo con i pazienti e si adopera con gli infermieri a mobilizzare i malati sulle barelle. Vallo a spiegare a tanti dei nostri amministrativi che si accalcano alle scalate delle scrivanie, con lo scopo di lavorare sempre meno e di sentirsi così investiti di un maggiore prestigio sociale.

Tutto sommato lavoro pur sempre in un Ospedale facente parte del UHWC, una ONG dichiaratamente legata al Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, Partito di ispirazione marxista.

E' fin buffo, di questi tempi, girare per i corridoi arredati con i manifesti in memoria di George Habash, fondatore e guerrigliero del Fronte; testimone, quando era un giovane medico, del massacro che colpì la sua città natale, Lydd, nel luglio del 1948, .

Fu la prima città a essere bombardata dalla neonata aviazione israeliana.

La memoria orale di chi è scampato rammenta un'orgia di uccisioni e saccheggi: 426 uomini, donne e bambini vennero uccisi, circa 50 mila persone, rastrellate casa per casa e spogliate di ogni avere. Furono cacciate dalla città verso la Cisgiordania. Giornalisti americani presenti testimoniarono che ogni cosa i militari si lasciavano alle spalle era morta. Kenneth Bilby, da giornalista embedded ante litteram, riferì di aver visto “I corpi di arabi, uomini, donne e bambini sparsi in giro a seguito dell'attacco spietatamente brillante”. Il “London Economist” descrisse le scene strazianti, di quando gli abitanti furono costretti a iniziare la marcia, dopo che i loro averi erano stati saccheggiati, i familiari uccisi, le case distrutte: “I rifugiati arabi furono sistematicamente depredati dei loro effetti personali prima di essere avviati in marcia verso la frontiera. Gli oggetti di casa, le provviste, il vestiario, tutto doveva essere lasciato alle spalle”. La popolazione fu costretta a marciare in maniera disumana, senza cibo né acqua, e molti morirono di sete e di fame lungo la via.

Lydd, famosa come “la città delle moschee” tra Giaffa e Gerusalemme, ora è la nuova città ebraica Lod, assorbita dalla cintura urbana di Tel Aviv, che accoglie la parte più povera della metropoli. All'epoca, secondo il piano di spartizione delle Nazioni Unite, redatto nella Risoluzione 181, sarebbe dovuta rientrare dentro il territorio arabo.

Lo storico israeliano Ilan Pappe, oggi espatriato in Gran Bretagna per protesta contro i crimini del proprio Stato, descrive con rigore quei giorni tremendi in “La pulizia etnica della Palestina”, beneficiando degli studi fatti sui diari personali di Ben Gurion, ritenuto il padre fondatore di Israele, e negli archivi dell'esercito israeliano.

Lungo le trecento pagine che narrano l'esodo di centinaia di migliaia di palestinesi nell'anno della Nakba, 1948, lo studioso israeliano spesso si domanda, come in una testimonianza disperata e colpevole, cosa, a soli tre anni dopo l'Olocausto, passasse per la mente degli ebrei che vedevano marciare verso il nulla quelle genti sventurate.

Ma è lo sguardo di Diaa Khalid che mi richiama, fermo e serio, dell'uomo dalla barba ispida e la pelle spessa,di chi alle parole è solito sostituire la fatica del lavoro, mi segue mentre parlo con un medico dei danni della guerra, pare aspettare un momento propizio.

Il momento arriva con l'apertura di un video sullo schermo del computer. Appare diventare solerte ma si trattiene, un carattere intrinsecamente composto e orgoglioso ma che vive in un dramma duro da contenere. Si scosta la divisa verde della Sala Operatoria dal collo e mette a nudo una brutta cicatrice sulla spalla.

Il video trasmette una scena notturna, soccorritori vestiti di bianco e d'arancio caricano un ferito sull'ambulanza, riconosco il mio amico, ritornano nell'oscurità cercando qualcosa, le torce si muovono nervose, puntano nel buio, un cadavere, iniziano gli urli, “via, via” sembrano dire in arabo. Veloci tornano all'ambulanza come di fronte al demonio. Allora iniziano gli spari. Uno del gruppo cade. Gli chiedo se è lui. No. Si rialza e raggiunge il mezzo con i lampeggianti rossi e rassicuranti. Lui è rimasto indietro, confuso tra la polvere che si è sollevata, dove un elicottero l'ha colpito.

Era il marzo del 2005 quando fu colpito da schegge al torace, alla testa e alle gambe.

“Twice, twice” mi dice, e racconta del 2007. A Bethanon, vicino al confine con Erez. Vengono allertati al telefono, c'è un gruppo di bambini da evacuare. Arrivati sul posto un bambino è già a terra colpito, ha otto anni. E' vivo. Gli altri sono al riparo. Il tempo di scendere dall'ambulanza e uno sparo lo raggiunge alla gamba, tuttavia riesce a raccogliere i bambini e a caricarli sul mezzo.

Il cecchino era appostato su una casa, l'ha visto negli occhi, ha iniziato a urlare “ambulance, ambulance”, l'altro rispondeva in ebraico. E' un mistero il perché quel militare sparasse a bambini e soccorritori, come è un mistero perché alla fine li abbia risparmiati.

E' sicuro che Diaa Khalid nella sua normalità è un eroe, per quanto ne voglia Bertolt Brecht, come è sicuro che lui ne farebbe a meno di esserlo, perciò la disperazione velata negli occhi e il bisogno di raccontare qualcosa di troppo più grande che ogni giorno gli si può abbattere contro.

Segue un altro video di oltre un'ora, tutto si svolge tra il Pronto Soccorso di Al Awda e le ambulanze sulle strade distrutte, le case sventrate, le donne, i bambini e gli uomini terrorizzati che invocano Dio, unico richiamo estremo abbandonati dal mondo. Davanti all'immagine di un uomo piangente e ricurvo, ricoperto di calcinacci ieri ho scritto: “Togliete tutto a un popolo e gli rimarrà solo un Dio da invocare, allora combatterà fino alla morte”. E' evidente che il terrore a cui questo popolo è sottoposto procura solo l'effetto di una disperata determinazione a resistere.

Intanto che le scene di soccorritori in affanno sui diversi scenari si susseguono. Diaa Khalid inizia a indicarmi una lista degli attori che compaiono.

Mi indica Ibrahim Shabat, l'autista d'ambulanza a cui hanno sparato alle gambe nel 2004, recidendogli l'arteria femorale.

Arafa Abed Eldaiem, paramedico, morto dentro l'ambulanza per un colpo di un carro armato nel gennaio 2009, era insieme all'autista Khalid Abo Saada, che ha subito un trauma cranico, Ala'a Sarhan, paramedico, rimasto disabile. E due pazienti: uno deceduto per una scheggia nel cervello e l'altro che ha perso una gamba. . L'ambulanza sventrata è davanti al piazzale dell'ospedale, a ricordo di un crimine; la foto compare sul blog. Un'altra ambulanza, persa di recente, non esiste più, completamente distrutta.

Questa è una parte delle testimonianze raccolte, fin ora, nella sola Al Awda, mentre il primo report, dopo il 18 gennaio, dell'Organizzazione Mondiale della Sanità rivela che durante i 22 giorni di terrore 16 operatori sanitari sono stati uccisi, 25 feriti gravemente mentre erano in servizio, 15 ospedali e 41 poliambulatori sono stati danneggiati, 29 ambulanze sono state danneggiate o distrutte.

Nello sguardo di Diaa Khalid El Halabi ho immaginato, per un attimo, di riconoscere quello di George Habash, quando giovane medico vedeva massacrare la sua gente.