Mi sono trattenuto a chiacchierare con il dott. Marwan Asalya, un giovane chirurgo che, qui all'ospedale, appare una promessa nelle tecniche di chirurgia endoscopica. E' massiccio e affabile, parla un inglese fluente, ha vissuto in diversi paesi, tra cui Arabia Saudita, Inghilterra ed Egitto.
Trattiene sul viso la freschezza di un adolescente, ride e scherza, gioca con i colleghi
intonando il dialetto beduino, esprime un umore cordiale e spiritoso tipico di tanta gente qua incontrata.
Mi invita a pranzo in una casa elegante di Jabalia. Da tre anni è tornato a Gaza per sposare Sara, la giovane moglie alla quale era promesso. E' alta e luminosa, fiera della propria cucina ha preparato un'ottima pizza, insieme a una gustosissima orata, frutto di una pericolosa pesca nel mare assediato. Hanno un bimbo di dieci mesi che gattona per il salotto, sul prezioso tappeto è l'immagine dell'infanzia beata nel tepore borghese.
La normalità della vita, nei rapporti, sulla strada che ogni giorno incontro mi meraviglia. Pare che il carattere solare intrinseco a questo popolo, che si affaccia sul Mediterraneo, sia inalienabile e mi ricorda, scusate l'immagine, una vecchia foto degli inizi del '900, in cui un operaio anarchico se la ride mentre le guardie lo portano via.
Mi accompagna sul tetto e inizia il racconto.
Alcuni giorni prima mi aveva disegnato una mappa dell'area. La via sottostante è trafficata, duecento metri a est si congiunge con Salah El Din Road, una delle principali arterie che uniscono il nord con il sud della Striscia.
Oltre il Corso le case si diradano verso la campagna, fino a Israele. All'orizzonte i promontori, dove le truppe israeliane a gennaio presero posizione colpendo, con cecchini e carri armati, tutto ciò che si muoveva e, quando nulla si muoveva, colpendo le case di tutta l'area senza tregua, finché si attestarono, di distruzione in distruzione, a un centinaio di metri dalla casa di Marwan. Il chirurgo era in ospedale assorbito da un lavoro frenetico tra sala operatoria e pronto soccorso quando seppe che la sua famiglia e, nel palazzo accanto, i suoi genitori, erano sotto il tiro impietoso.
Nell'arco di un paio di giorni si sono susseguite varie carneficine tutto intorno.
In un momento di tregua apparente un po' di gente si era accalcata davanti a un ristorante sulla via, esausti dalla fame, quando i cecchini hanno iniziato la loro missione uccidendone cinque, poco più in là due bambine sono state freddate, una centrata alla testa; sull'asfalto sono ancora visibili i colpi di cannone e un palazzo di otto piani è ora pericolante per le colonne portanti disintegrate. Il peggio è arrivato quando Marwan ha ricevuto la notizia di una donna centrata, mentre era riparata in casa, in pieno dal colpo di un carro armato sulla sua via, affianco a una banca, dove risiede. Momenti febbrili di disperazione e impotenza, con tutte le comunicazioni isolate. Saprà più tardi che era la vicina del palazzo che si affaccia sul suo giardino, passeranno giorni a raccogliere i minuscoli pezzi rimasti intorno. In quei giorni, passati strisciando per casa per evitare la solerzia dei cecchini, il padre ha avuto il coraggio di distribuire acqua al vicinato, dato che erano gli unici a possedere una capiente cisterna e potenti generatori per pomparla. Riusciranno, giorni dopo, a evacuare la zona per l'intervento di un amico delle Nazioni Unite al quale, con una macchina contrassegnata, gli verrà concesso di approssimarsi alla zona.
La famiglia intera dovette camminare per un centinaio di metri verso il mezzo, protetta dal tiro dei fucili solo da una bandiera bianca, con la consapevolezza di come il segnale di resa contasse poco, visto che giorni prima una stessa bandiera si era impregnata del sangue di alcuni parenti di Sara.
Dall'alto guardo intorno la devastazione, è il primo giorno di tepore che rivela la primavera, laggiù un minareto conserva la sua vetta per un miracolo o un gioco di ingegneria, squarciato a metà dell'altezza da parte a parte, l'azzurro che lo attraversa diventa un ferita nel cielo.
Dopo la panoramica dalla graziosa casa è il momento di uscire, mi porta verso est, la linea del fronte, se mai si può chiamare “guerra” la mattanza di civili, lontani da qualsiasi formazione combattente palestinese. Mi accompagna nel luogo dove zii e cugini della moglie sono stati freddati e dove hanno distrutto quattro case dei parenti di lei, compresa la villa dei genitori.
Ma, prima di proseguire nel riportare gli avvenimenti dello scorso gennaio, avrei piacere di condividere la lettura che in questi giorni mi ha fatto comprendere molto della cosiddetta “questione palestinese”.
Lo storico ebreo Ilan Pappe, in “La pulizia etnica della Palestina”, così racconta il massacro del 9 aprile 1948 a Deir Yassin, villaggio su una collina a ovest di Gerusalemme, che aveva stipulato un patto di non aggressione con i paramilitari sionisti dell'Haganà.
“Come irruppero nel villaggio, i soldati ebrei crivellarono le case con le mitragliatrici, uccidendo molti abitanti. Le persone ancora in vita furono radunate in un posto e ammazzate a sangue freddo, i loro corpi seviziati, mentre molte donne vennero violentate e poi uccise. [...] (Gli ebrei crivellarono) un gruppo di bambini allineati contro un muro [...] Poiché le truppe ebraiche consideravano ogni villaggio palestinese una base militare nemica, la distinzione tra massacrare gli abitanti e ucciderli in “battaglia” era di scarsa importanza, Bisogna solo dire che tra le persone massacrate vi erano trenta neonati; si capisce così che il calcolo quantitativo - che gli israeliani hanno ripetuto, nell'aprile 2002, nel massacro di Jenin – è privo di senso.”
Albert Einstein, insieme a ventisette importanti personaggi ebrei di New York, condannò sul New York Times il massacro di Deir Yassin in una lettera pubblicata il 4 dicembre 1948, osservando che “bande di terroristi avevano attaccato questo pacifico villaggio, che non era un obiettivo militare nella guerra, e ucciso la maggior parte dei suoi abitanti – 240 tra uomini, donne e bambini – e tenuti pochi di essi in vita per mostrarli come prigionieri nelle strade di Gerusalemme. La maggioranza della comunità ebraica fu inorridita per l'evento, e l'Agenzia ebraica inviò un telegramma di scuse a re Abdullah di Transgiordania. Ma i terroristi, lontani dal provare pentimento per le loro azioni, furono orgogliosi del massacro, ne diedero ampiamente notizia e invitarono tutti i corrispondenti nel paese a vedere i mucchi di cadaveri e la distruzione completa di Deir Yassin”
In sessantun anni il modo di operare dell'esercito israeliano ha mantenuto una coerenza sconvolgente, conseguendo il costante obiettivo di portare via più terra possibile ai nativi palestinesi, uccidendone il più alto numero e provocando terrore, utilizzando il metodo della rappresaglia, di triste italiana memoria, e confondendo i civili con la resistenza. Ha sempre messo in campo una forza militare straordinariamente superiore per poi giocare coi Media al ruolo di vittima assediata.
E' di ieri la cronaca delle magliette sfoggiate per le strade di Israele in cui si inneggia ad ammazzare l'arabo, con disegni di cannocchiali che puntano bambini e donne in cinta velate. Non è molto dissimile dallo sfoggio di cadaveri che, a Deir Yassin, venne fatto ai corrispondenti di tutto il mondo, un mondo che da sessantun anni ignora partecipe.
Dalla prigione a cielo aperto di Gaza
Assediamo l'assedio.
Trattiene sul viso la freschezza di un adolescente, ride e scherza, gioca con i colleghi
intonando il dialetto beduino, esprime un umore cordiale e spiritoso tipico di tanta gente qua incontrata.
Mi invita a pranzo in una casa elegante di Jabalia. Da tre anni è tornato a Gaza per sposare Sara, la giovane moglie alla quale era promesso. E' alta e luminosa, fiera della propria cucina ha preparato un'ottima pizza, insieme a una gustosissima orata, frutto di una pericolosa pesca nel mare assediato. Hanno un bimbo di dieci mesi che gattona per il salotto, sul prezioso tappeto è l'immagine dell'infanzia beata nel tepore borghese.
La normalità della vita, nei rapporti, sulla strada che ogni giorno incontro mi meraviglia. Pare che il carattere solare intrinseco a questo popolo, che si affaccia sul Mediterraneo, sia inalienabile e mi ricorda, scusate l'immagine, una vecchia foto degli inizi del '900, in cui un operaio anarchico se la ride mentre le guardie lo portano via.
Mi accompagna sul tetto e inizia il racconto.
Alcuni giorni prima mi aveva disegnato una mappa dell'area. La via sottostante è trafficata, duecento metri a est si congiunge con Salah El Din Road, una delle principali arterie che uniscono il nord con il sud della Striscia.
Oltre il Corso le case si diradano verso la campagna, fino a Israele. All'orizzonte i promontori, dove le truppe israeliane a gennaio presero posizione colpendo, con cecchini e carri armati, tutto ciò che si muoveva e, quando nulla si muoveva, colpendo le case di tutta l'area senza tregua, finché si attestarono, di distruzione in distruzione, a un centinaio di metri dalla casa di Marwan. Il chirurgo era in ospedale assorbito da un lavoro frenetico tra sala operatoria e pronto soccorso quando seppe che la sua famiglia e, nel palazzo accanto, i suoi genitori, erano sotto il tiro impietoso.
Nell'arco di un paio di giorni si sono susseguite varie carneficine tutto intorno.
In un momento di tregua apparente un po' di gente si era accalcata davanti a un ristorante sulla via, esausti dalla fame, quando i cecchini hanno iniziato la loro missione uccidendone cinque, poco più in là due bambine sono state freddate, una centrata alla testa; sull'asfalto sono ancora visibili i colpi di cannone e un palazzo di otto piani è ora pericolante per le colonne portanti disintegrate. Il peggio è arrivato quando Marwan ha ricevuto la notizia di una donna centrata, mentre era riparata in casa, in pieno dal colpo di un carro armato sulla sua via, affianco a una banca, dove risiede. Momenti febbrili di disperazione e impotenza, con tutte le comunicazioni isolate. Saprà più tardi che era la vicina del palazzo che si affaccia sul suo giardino, passeranno giorni a raccogliere i minuscoli pezzi rimasti intorno. In quei giorni, passati strisciando per casa per evitare la solerzia dei cecchini, il padre ha avuto il coraggio di distribuire acqua al vicinato, dato che erano gli unici a possedere una capiente cisterna e potenti generatori per pomparla. Riusciranno, giorni dopo, a evacuare la zona per l'intervento di un amico delle Nazioni Unite al quale, con una macchina contrassegnata, gli verrà concesso di approssimarsi alla zona.
La famiglia intera dovette camminare per un centinaio di metri verso il mezzo, protetta dal tiro dei fucili solo da una bandiera bianca, con la consapevolezza di come il segnale di resa contasse poco, visto che giorni prima una stessa bandiera si era impregnata del sangue di alcuni parenti di Sara.
Dall'alto guardo intorno la devastazione, è il primo giorno di tepore che rivela la primavera, laggiù un minareto conserva la sua vetta per un miracolo o un gioco di ingegneria, squarciato a metà dell'altezza da parte a parte, l'azzurro che lo attraversa diventa un ferita nel cielo.
Dopo la panoramica dalla graziosa casa è il momento di uscire, mi porta verso est, la linea del fronte, se mai si può chiamare “guerra” la mattanza di civili, lontani da qualsiasi formazione combattente palestinese. Mi accompagna nel luogo dove zii e cugini della moglie sono stati freddati e dove hanno distrutto quattro case dei parenti di lei, compresa la villa dei genitori.
Ma, prima di proseguire nel riportare gli avvenimenti dello scorso gennaio, avrei piacere di condividere la lettura che in questi giorni mi ha fatto comprendere molto della cosiddetta “questione palestinese”.
Lo storico ebreo Ilan Pappe, in “La pulizia etnica della Palestina”, così racconta il massacro del 9 aprile 1948 a Deir Yassin, villaggio su una collina a ovest di Gerusalemme, che aveva stipulato un patto di non aggressione con i paramilitari sionisti dell'Haganà.
“Come irruppero nel villaggio, i soldati ebrei crivellarono le case con le mitragliatrici, uccidendo molti abitanti. Le persone ancora in vita furono radunate in un posto e ammazzate a sangue freddo, i loro corpi seviziati, mentre molte donne vennero violentate e poi uccise. [...] (Gli ebrei crivellarono) un gruppo di bambini allineati contro un muro [...] Poiché le truppe ebraiche consideravano ogni villaggio palestinese una base militare nemica, la distinzione tra massacrare gli abitanti e ucciderli in “battaglia” era di scarsa importanza, Bisogna solo dire che tra le persone massacrate vi erano trenta neonati; si capisce così che il calcolo quantitativo - che gli israeliani hanno ripetuto, nell'aprile 2002, nel massacro di Jenin – è privo di senso.”
Albert Einstein, insieme a ventisette importanti personaggi ebrei di New York, condannò sul New York Times il massacro di Deir Yassin in una lettera pubblicata il 4 dicembre 1948, osservando che “bande di terroristi avevano attaccato questo pacifico villaggio, che non era un obiettivo militare nella guerra, e ucciso la maggior parte dei suoi abitanti – 240 tra uomini, donne e bambini – e tenuti pochi di essi in vita per mostrarli come prigionieri nelle strade di Gerusalemme. La maggioranza della comunità ebraica fu inorridita per l'evento, e l'Agenzia ebraica inviò un telegramma di scuse a re Abdullah di Transgiordania. Ma i terroristi, lontani dal provare pentimento per le loro azioni, furono orgogliosi del massacro, ne diedero ampiamente notizia e invitarono tutti i corrispondenti nel paese a vedere i mucchi di cadaveri e la distruzione completa di Deir Yassin”
In sessantun anni il modo di operare dell'esercito israeliano ha mantenuto una coerenza sconvolgente, conseguendo il costante obiettivo di portare via più terra possibile ai nativi palestinesi, uccidendone il più alto numero e provocando terrore, utilizzando il metodo della rappresaglia, di triste italiana memoria, e confondendo i civili con la resistenza. Ha sempre messo in campo una forza militare straordinariamente superiore per poi giocare coi Media al ruolo di vittima assediata.
E' di ieri la cronaca delle magliette sfoggiate per le strade di Israele in cui si inneggia ad ammazzare l'arabo, con disegni di cannocchiali che puntano bambini e donne in cinta velate. Non è molto dissimile dallo sfoggio di cadaveri che, a Deir Yassin, venne fatto ai corrispondenti di tutto il mondo, un mondo che da sessantun anni ignora partecipe.
Dalla prigione a cielo aperto di Gaza
Assediamo l'assedio.
mi chiedo come sia possible resistere a tanto dolore, quale sia il processo che sovraintende a tanta ostinazione e il coraggio di per se stesso non può essere la risposta.
RispondiEliminapensare, e provare anche solo per un attimo, a mettermi nei panni di marwan mi gela il sangue.
pensare di trovarmi all'ist mentre in piazzetta veneroso cecchini giocano al tiro a segno...
forse la risposta sta nel considerare la potenza dell'istinto, della conservazione.
di fatto la vita è fatta anche di questo, e in questo siamo tutti vicini.
si può partorire, far nascere creature che oggi gattonano nel salotto borghese e domani potrebbero giocare tra macerie e ordigni inesplosi, inshallah!
la vita non può essere fermata, il destino sempre si compie ed è giusto muoversi sulla scacchiera.
ma perchè non andare in altra terra? perchè rimanere a radicare il proprio patrimonio umano e genetico in un paese martoriato nel passatopresentefuturo?
perchè le ingiustizie e i soprusi si combattono..
ma solo dall'interno? solo vivendo come target?
non sono palestinese, non posso immaginare cosa lega a quella terra. quale sia il cambio al decidere di mettere a rischio non tanto la propria esistenza (questo lo comprendo) ma quella delle persone amate e create.
quale la ricompensa?
ricompensa..appunto.. come si diceva lo stordimento della religione?..
e anche qui da mistica e laica il mio pensiero si ferma..
mi rimangono domande alle quali non so dare risposta e che forse difficilmente potrebbero trovare un convincimento.