lunedì 23 marzo 2009

SGUARDI DI RESISTENZA DESIDEROSI DI PACE

di Marcello Sordo, Gaza

C'è una linea gialla che improvvisamente diventa rossa dentro il recinto di Gaza.

Ieri l'ho vista tra i video conservati dall'ospedale e negli occhi di Diaa Khalid El Halabi. Coordinatore delle ambulanze e pronti soccorsi della Striscia per il Ministero, portavoce dell'Emergency Medical Committee del UHWC e, infine, infermiere nella Sala Operatoria di Al Awda, quando gli impegni di funzionario non lo occupano.

E' incredibile come qua i confini tra le cariche dirigenti e i lavoratori si assottiglino e la struttura gerarchica assuma un valore puramente funzionale, che crea un'atmosfera di cordialità e collaborazione, di spirito comune nel lavoro svolto. Già ho parlato del Direttore Sanitario che dismette le proprie funzioni primarie per calarsi in Sala Operatoria, mantiene un rapporto caldo con i pazienti e si adopera con gli infermieri a mobilizzare i malati sulle barelle. Vallo a spiegare a tanti dei nostri amministrativi che si accalcano alle scalate delle scrivanie, con lo scopo di lavorare sempre meno e di sentirsi così investiti di un maggiore prestigio sociale.

Tutto sommato lavoro pur sempre in un Ospedale facente parte del UHWC, una ONG dichiaratamente legata al Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, Partito di ispirazione marxista.

E' fin buffo, di questi tempi, girare per i corridoi arredati con i manifesti in memoria di George Habash, fondatore e guerrigliero del Fronte; testimone, quando era un giovane medico, del massacro che colpì la sua città natale, Lydd, nel luglio del 1948, .

Fu la prima città a essere bombardata dalla neonata aviazione israeliana.

La memoria orale di chi è scampato rammenta un'orgia di uccisioni e saccheggi: 426 uomini, donne e bambini vennero uccisi, circa 50 mila persone, rastrellate casa per casa e spogliate di ogni avere. Furono cacciate dalla città verso la Cisgiordania. Giornalisti americani presenti testimoniarono che ogni cosa i militari si lasciavano alle spalle era morta. Kenneth Bilby, da giornalista embedded ante litteram, riferì di aver visto “I corpi di arabi, uomini, donne e bambini sparsi in giro a seguito dell'attacco spietatamente brillante”. Il “London Economist” descrisse le scene strazianti, di quando gli abitanti furono costretti a iniziare la marcia, dopo che i loro averi erano stati saccheggiati, i familiari uccisi, le case distrutte: “I rifugiati arabi furono sistematicamente depredati dei loro effetti personali prima di essere avviati in marcia verso la frontiera. Gli oggetti di casa, le provviste, il vestiario, tutto doveva essere lasciato alle spalle”. La popolazione fu costretta a marciare in maniera disumana, senza cibo né acqua, e molti morirono di sete e di fame lungo la via.

Lydd, famosa come “la città delle moschee” tra Giaffa e Gerusalemme, ora è la nuova città ebraica Lod, assorbita dalla cintura urbana di Tel Aviv, che accoglie la parte più povera della metropoli. All'epoca, secondo il piano di spartizione delle Nazioni Unite, redatto nella Risoluzione 181, sarebbe dovuta rientrare dentro il territorio arabo.

Lo storico israeliano Ilan Pappe, oggi espatriato in Gran Bretagna per protesta contro i crimini del proprio Stato, descrive con rigore quei giorni tremendi in “La pulizia etnica della Palestina”, beneficiando degli studi fatti sui diari personali di Ben Gurion, ritenuto il padre fondatore di Israele, e negli archivi dell'esercito israeliano.

Lungo le trecento pagine che narrano l'esodo di centinaia di migliaia di palestinesi nell'anno della Nakba, 1948, lo studioso israeliano spesso si domanda, come in una testimonianza disperata e colpevole, cosa, a soli tre anni dopo l'Olocausto, passasse per la mente degli ebrei che vedevano marciare verso il nulla quelle genti sventurate.

Ma è lo sguardo di Diaa Khalid che mi richiama, fermo e serio, dell'uomo dalla barba ispida e la pelle spessa,di chi alle parole è solito sostituire la fatica del lavoro, mi segue mentre parlo con un medico dei danni della guerra, pare aspettare un momento propizio.

Il momento arriva con l'apertura di un video sullo schermo del computer. Appare diventare solerte ma si trattiene, un carattere intrinsecamente composto e orgoglioso ma che vive in un dramma duro da contenere. Si scosta la divisa verde della Sala Operatoria dal collo e mette a nudo una brutta cicatrice sulla spalla.

Il video trasmette una scena notturna, soccorritori vestiti di bianco e d'arancio caricano un ferito sull'ambulanza, riconosco il mio amico, ritornano nell'oscurità cercando qualcosa, le torce si muovono nervose, puntano nel buio, un cadavere, iniziano gli urli, “via, via” sembrano dire in arabo. Veloci tornano all'ambulanza come di fronte al demonio. Allora iniziano gli spari. Uno del gruppo cade. Gli chiedo se è lui. No. Si rialza e raggiunge il mezzo con i lampeggianti rossi e rassicuranti. Lui è rimasto indietro, confuso tra la polvere che si è sollevata, dove un elicottero l'ha colpito.

Era il marzo del 2005 quando fu colpito da schegge al torace, alla testa e alle gambe.

“Twice, twice” mi dice, e racconta del 2007. A Bethanon, vicino al confine con Erez. Vengono allertati al telefono, c'è un gruppo di bambini da evacuare. Arrivati sul posto un bambino è già a terra colpito, ha otto anni. E' vivo. Gli altri sono al riparo. Il tempo di scendere dall'ambulanza e uno sparo lo raggiunge alla gamba, tuttavia riesce a raccogliere i bambini e a caricarli sul mezzo.

Il cecchino era appostato su una casa, l'ha visto negli occhi, ha iniziato a urlare “ambulance, ambulance”, l'altro rispondeva in ebraico. E' un mistero il perché quel militare sparasse a bambini e soccorritori, come è un mistero perché alla fine li abbia risparmiati.

E' sicuro che Diaa Khalid nella sua normalità è un eroe, per quanto ne voglia Bertolt Brecht, come è sicuro che lui ne farebbe a meno di esserlo, perciò la disperazione velata negli occhi e il bisogno di raccontare qualcosa di troppo più grande che ogni giorno gli si può abbattere contro.

Segue un altro video di oltre un'ora, tutto si svolge tra il Pronto Soccorso di Al Awda e le ambulanze sulle strade distrutte, le case sventrate, le donne, i bambini e gli uomini terrorizzati che invocano Dio, unico richiamo estremo abbandonati dal mondo. Davanti all'immagine di un uomo piangente e ricurvo, ricoperto di calcinacci ieri ho scritto: “Togliete tutto a un popolo e gli rimarrà solo un Dio da invocare, allora combatterà fino alla morte”. E' evidente che il terrore a cui questo popolo è sottoposto procura solo l'effetto di una disperata determinazione a resistere.

Intanto che le scene di soccorritori in affanno sui diversi scenari si susseguono. Diaa Khalid inizia a indicarmi una lista degli attori che compaiono.

Mi indica Ibrahim Shabat, l'autista d'ambulanza a cui hanno sparato alle gambe nel 2004, recidendogli l'arteria femorale.

Arafa Abed Eldaiem, paramedico, morto dentro l'ambulanza per un colpo di un carro armato nel gennaio 2009, era insieme all'autista Khalid Abo Saada, che ha subito un trauma cranico, Ala'a Sarhan, paramedico, rimasto disabile. E due pazienti: uno deceduto per una scheggia nel cervello e l'altro che ha perso una gamba. . L'ambulanza sventrata è davanti al piazzale dell'ospedale, a ricordo di un crimine; la foto compare sul blog. Un'altra ambulanza, persa di recente, non esiste più, completamente distrutta.

Questa è una parte delle testimonianze raccolte, fin ora, nella sola Al Awda, mentre il primo report, dopo il 18 gennaio, dell'Organizzazione Mondiale della Sanità rivela che durante i 22 giorni di terrore 16 operatori sanitari sono stati uccisi, 25 feriti gravemente mentre erano in servizio, 15 ospedali e 41 poliambulatori sono stati danneggiati, 29 ambulanze sono state danneggiate o distrutte.

Nello sguardo di Diaa Khalid El Halabi ho immaginato, per un attimo, di riconoscere quello di George Habash, quando giovane medico vedeva massacrare la sua gente.


1 commento:

  1. togliere tutto ad un popolo significa restituirlo alla superstizione del divino e paradossalmente condannarlo alla morte.
    vero.
    allora che fare? smettere di lottare?..trovare un'altra via?..un'altra possibilità collettiva, una salvezza per tutti?..è possibile?..è possibile in una terra dove gli interessi in gioco sono molteplici, dove diversi sono i burattinai a tirare e strattonarsi per pochi fili?..
    mistero.
    mistero, come lo sguardo del cecchino che decide di rinviare la morte alle sue vittime, come la vita e il transito in questa dimensione spazio-temporale, come il destino umano che forse può essere svelato e indirizzato.
    ...io dall'altra parte della barricata vivo in una metafora. annuso l'anima degli altri esseri umani e sento odore di coagulo, di necrosi.
    mi accorgo come gaza è genova, come indipendentemente dalla storia, dalla cultura, dalla geografia sono gli attori di questo mondo a tracciare e delineare le connessioni e le analogie.
    come, anche qui, si possa quotidianamente scegliere di dichiarare guerra all'altro senza tregua, senza senso .
    un matafora, sì.
    qui il fosforo non brucia, qui i corpi non devono essere schivati nel tragitto per tornare a casa, eppure non si sorride.
    io ho scelto di stare nel mondo, di combattere per la salvezza, per la giustizia, per l'amore della bellezza e dell'armonia e se in questo cammino alzo la testa e guardo la profondità del panorama quasi svengo per la paura.
    la paura di aver perso prima ancora dell'inizio.
    non ci sono alternative e, personalmente, l'altare a cui mi inginocchio per alzare la preghiera al cielo è fatto di carne.

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