sabato 28 marzo 2009

IL TIRO AL PICCIONE



di Marcello Sordo, Gaza
foto su http://picasaweb.google.com/urgenzasanitariagaza/ILTIROALPICCIONE#

Attraversiamo le due carreggiate di Salah El Din Road, io e il dottor Marwan.
Più ci spostiamo a est e più si fanno evidenti i segni della distruzione. Ci lasciamo alle spalle alcune officine disintegrate, verso abitazioni civili sempre più colpite dai proiettili e dagli incendi. Iniziamo a salire per un pendio, circondato da frutteti interrotti da vaste distese di fango, a vista d'occhio i palazzi dai quattro ai sei, sette piani, sono squartati da grosse voragini, anneriti dalle fiamme, nulla che ci circonda apparteneva ad avamposti militari palestinesi.
Marwan mi racconta delle passeggiate che tra questi frutteti faceva quando era fidanzato, con un tono romantico e tenero. Giriamo per un bivio e compare la villa sventrata che lo addolora, ciò che rimane della residenza che fu di sua moglie e dei genitori di lei.
Entriamo, da ogni muro e soffitto ci sono squarci che rivelano i campi circostanti, l'azzurro del cielo. Marwan è premuroso e mi avvisa di fare attenzione mentre superiamo calcinacci e attraversiamo precarie passerelle sospese sulle scale mozzate. In certi punti le maglie del cemento armato sono nude e sole a mantenere insieme pezzi di muro. Nel salire al piano superiore mi indica dove era solito appartarsi con Sara, dove ci fu il primo bacio. Sopra un enorme squarcio, che ha eliminato per intero una parete, mette a nudo i resti di quello che doveva essere un vasto salotto, parte di una camera da letto, tendaggi ancora penzolanti conservano una antica eleganza, tra mobili traforati dai proiettili e corredi persi nella polvere. Un libro di microbiologia sgualcito, aperto a terra come in un atto di resa, mi guida verso una veranda dove trovo uno studiolo, un ammasso di libri e quaderni sono stati abbattuti sulla scrivania dalla libreria, crivellati di colpi. Ci si muove verso le camere appartenute all'infanzia, superando un computer arrostito, dove bambole di pezza han perso il proprio colore sgargiante, buttate tra libri di grammatica araba e inglese.
Tornati al salone l'espressione di Marwan è sconsolata, allarga le braccia, si domanda perché, non trova un senso a tanta distruzione, mi indica fuori l'altro lato della collina, dove erano appostati i soldati israeliani. La casa era ormai vuota, nessun miliziano nelle vicinanze, eppure i soldati hanno speso ore a mitragliare la casa, che non arrecava alcuna minaccia. Tutta una vita, il senso di una famiglia, ogni cosa andata perduta. Gli chiedo se gli sono rimaste delle foto dell'abitazione, ma niente, anche i ricordi si sono svaniti.

Ci spostiamo a qualche centinaio di metri, siamo solo agli inizi del viaggio, tutte le case degli zii della moglie sono andate distrutte, e non solo.
Ci addentriamo in un villaggio dove, fino a dicembre, una zona povera doveva convivere con una parte residenziale, ora non si riesce a distinguere più nulla.
Ci soffermiamo in un centro clinico della Mezza Luna Rossa, con un parco di ambulanze all'esterno che durante l'aggressione erano attive con l'ospedale Al Awda. Scambiamo due chiacchiere con i militi, mi raccontano di essere stati un interessante bersaglio per i fucili israeliani. Guardo in alto e non c'è più un vetro integro, i muri del primo piano son tutti traforati dalle pallottole. Riconosco il posto, filmato il giorno prima dall'emittente Al Jazeera in un servizio sugli attacchi subiti dai soccorritori e dagli ospedali.
Lungo il villaggio veniamo accolti da un nuvolo di bambini, sono chiassosi, percepisco un approccio troppo invasivo, mi arriva una patta sulla schiena non troppo amichevole; nei loro visi sorridenti intravedo una smorfia, il dolore che ha attraversato le loro giovani menti deve essere qualcosa di irreparabile, i lutti e i traumi che devono avere subito richiederebbero strategie e cure spropositate, come spropositati sono stati gli armamenti che gli sono piovuti addosso. Marwan manifesta preoccupazione per i disordini post-traumatici vissuti da questi bambini.

Scolliniamo e l'oltre appare lunare.
Intorno focacce di cemento armato, sterpaglie e terra; disseminate sembrano avere subito il passaggio di un pachiderma. Una casa, in cui un muro portante deve aver retto, è collassata sui lati, mantenendo una colonna nel centro, ora assume la forma grottesca ti un enorme tipee indiano in cemento, sotto un falò brucia, probabile unico pericoloso riparo rimasto, o folle e orgogliosa permanenza dentro a una proprietà perduta, visto che, mediamente, tutte le famiglie sfollate trovano riparo presso parenti, Governo o UNRWA.
A sinistra su un promontorio, circondato dal poco verde rimasto e dai reticolati, un grande compound dell'URWA pieno di viveri, a destra, oltre le macerie di una casa disintegrata, una vasta distesa di tende su un polveroso spazio, una volta occupato dal verde degli alberi.
Marwan mi indica quest'ultima casa. Poi si rivolge al promontorio alle spalle, dove i soldati si erano appostati. Con i megafoni avevano intimato alla famiglia di uscire, rispettivamente la zia e tre cugine di Sara. Uscite mani in alto, con una sola bandiera bianca, sono state abbattute, a sangue freddo. Due bambine, di sette e cinque anni, sono morte sul colpo, mentre la mamma, Souad, e la sorellina di quattro anni sono ora ricoverate in Belgio, in pessime condizioni. Osservo i pochi metri che separavano l'arbusto dietro cui stavano i soldati e la casa, uno spazio in cui si può riconoscere il colore dell'iride e percepire la luce negli occhi.
Mi perdo nello spazio infinito davanti a noi, a est, la strada sterrata declina verso le ultime baracche di contadini, uomini e ragazzi stanno tornando dai campi, chi a piedi, chi trainato su carretti dai muli. Una grande distesa verde e gialla raggiunge l'orizzonte dove alti svettano gli alberi, laggiù è Israele, a un tiro di schioppo; fino a pochi anni fa qua viveva una rigogliosa foresta, maciullata da giganteschi buldozer. Ci troviamo su una linea invisibile e invalicabile, benché manchino un paio di chilometri al confine, tutta la terra palestinese davanti è abbandonata, chiunque vi entri verrà abbattuto dalle guardie di frontiera laggiù invisibili. Si intravede minuscolo un sontuoso santuario, intorno c'era un cimitero che è stato completamente bombardato. Marwan mi dice che di notte, nella posizione in cui siamo, diverremmo i bersagli dei cecchini, perciò i contadini fanno presto a rientrare, sanno che qui non si fanno sconti.

L'International Solidariety Movement si sta adoperando per proteggere i contadini che lavorano la terra in prossimità della “Linea Verde”.
Dal cessate il fuoco sono stati colpiti i rispettivi lavoratori:
Il 18 gennaio Abu Rajileh (24) del villaggio di Khoza’a, colpito a morte mentre lavorava il suo appezzamento a 400 metri dalla linea verde.
Il 20 gennaio al-Astal (42) di Al Qarara (vicino Khan Younis), colpito al piede destro.
Il 27 gennaio Anwar al Buraim è stato colpito al collo a morte.
Il 18 febbraio Mohammad Il Ibrahim (20) colpito alle gambe, mentre caricava prezzemolo sul suo carro, a 550 metri dalla linea verde. I contadini stavano lavorando insieme agli attivisti internazionali da due ore, a vista rispetto alle guardie israeliane, e stavano abbandonando la zona quando senza motivo sono stati bersagliati.
(dati forniti da
http://palsolidarity.org/2009/03/5482HYPERLINK "http://palsolidarity.org/2009/03/5482" )

All'imbrunire il sole scompare tra le macerie, intorno i primi fuochi dei profughi.
Volgiamo a ovest quando ci imbattiamo, dopo pochi metri, con due signori distinti, di un'austerità tipica delle province rurali nostre, personaggi che si possono facilmente incontrare nelle nostre campagne, chessò, in Toscana o in Emilia.
Marwan mi presenta uno zio di Sara, Mohamad Abu Fadi, che ci porta a vedere i resti della sua casa.
A poche centinaia di metri dal massacro raccontato, ci troviamo davanti alla sua villa
collassata su se stessa, entriamo dentro a quel poco che rimane, mentre Mohamad racconta, con il viso paonazzo dal dolore, gli occhi lucidi, i giorni circondati dai
tank, ci indica le case intorno con le feritoie sui muri create dai cecchini. Aveva un vasto giardino con tutti i frutti della macchia mediterranea, davanti una vasta coltura di limoni e aranci, tutto distrutto e sradicato dai bulldozer, come la sua stessa casa, da poco costruita. Marwan mi racconta come, solo un paio di giorni prima dell'occupazione, fosse tutta la famiglia riunita nel patio scomparso, a godersi l'aria dei campi.
Mohamad racconta di quanta cura avesse per la sua casa, di quando smontò i serramenti, nel timore che le esplosioni rompessero i vetri; della casa gli sono rimasti solo quelli. Dice che il Governo gli risarcirà la perdita ma lui ha timore di ricostruire, permanentemente minacciato, sotto scacco, con l'incubo che presto Israele allargherà ulteriormente i suoi confini, fino ad arrivare alla sua casa, annettendosi ogni cosa, uccidendo ed espellendo l'umanità che vi risiede. Guardo ancora intorno la terra nuda e il fango, dove due mesi prima viveva un giardino e trovo incomprensibile l'accanimento contro le colture.

Nel buoi facciamo ritorno verso Jabalia, continua la conta di Marwan, di un'altra cugina della moglie uccisa da una fucilata a soli venticinque anni, rammenta con dolore quanto era bella e ancora di un altro cugino a cui hanno sparato e di un altro ancora, a soli diciassette anni, abbattuto perché un combattente, l'unico della famiglia.
In un grande slargo noto un grande tendone, dentro è una distesa di colorati tappeti, e chiedo spiegazione. In quello spazio a dicembre c'era una moschea, ora ai fedeli è rimasto un riparo di plastica .

L'ultima visita è di piacere, dal nonno di Marwan, lo descrive forte e vitale nei suoi settant'anni, residente originario di Jabalia, a dispetto dei 150 mila profughi che ora la abitano. I residenti originari sono solo duemila, di quando quest'area, a nord di Gaza City, era un giardino fiorito.
Appena superato Salah El Din Road mi indica una vecchia villa circondata da mura che ricordano vecchie tenute signorili tipiche del nostro sud. Era la residenza del nonno, abbandonata a gennaio, prima che diverse bombe piovessero da un F16.
Il nonno mi accoglie con un bel sorriso, i suoi capelli bianchi brillano sotto la luna, la fronte spaziosa e la pelle abbronzata mi ricordano il mio nonno calabrese Eugenio, a volte nei tratti sembriamo tutti usciti dallo stesso pentolone che si chiama Mediterraneo.
Nel patio è buoi, se non per una flebile torcia, i black out sono la norma, uno dei cari prezzi dell'assedio, ma questo non ci nega di bere un caldo tè in buona compagnia.
Sopra un manto di stelle ci sovrasta e per la prima volta riconosco la costellazione del Sagittario.

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