sabato 25 aprile 2009

VENERDI' SANTO

di Marcello Sordo, Gaza.

Venerdì di passione. Assorto tra i canti di uccelli, i canti coranici vicini, i rumori attutiti dalla festività e dalla sabbia. Percepisco la sigaretta appesa al nulla, un nulla che assorbe la passione di questa terra, che si sforza di comprendere la naturale dolcezza di un popolo sofferente, che si perde nella complessa vastità che lo accoglie, circondato da giardini curati e case rese monche da una perpetua privazione.
Mi scopro lo sguardo perso verso sud est; ogni mattino, al risveglio, il mio sguardo si è rivolto laggiù oltre il muro, come attratto da un evento o da una energia.

Ritornano le parole di Shads (miele) e le emozioni che ha scaturito una sera.
“Tu credi in Mohammad?” La sua domanda suonava come un'affermazione, il mio delicato diniego la stupiva senza ledere la dolcezza e la grazia con cui mi parlava. “Quando ti ho visto entrare in questa casa, la prima volta, ti ho pensato mussulmano e ne sono rimasta colpita”. Mi fissa negli occhi, con la forza della luce pulita, e mi parla dei modi gentili, dell'alterità, del rispetto degli spazi , dell'impegno sociale e riconduce la virtù alla fede, ai precetti religiosi che rendono la convivenza armoniosa in ogni gesto rivolto a Dio. Forse in un pensiero laico europeo mi avrebbe parlato di empatia, ma è più probabile che io non afferri significati più profondi.
Il suo invito alla fede è tanto delicato e carico di forza che mi sovrasta, invade il pensiero come un balsamo mentolato che si assorbe e attiva ogni recettore nervoso. La mia mancanza di fede religiosa, carica di umanità e rispetto, fa sì che parliamo comunque la stessa lingua, universale, rende il dialogo intenso come in un momento di rivelazione. I suoi occhi scuri e luminosi sono buoni e intelligenti, i diciotto anni si riconoscono nei tratti del viso circondati dal foulard, il copricapo ne esalta la bellezza piuttosto che manifestarne rigore, l'espressione è di una donna matura e consapevole.
Un contrasto comune, tra i moti dell'età e l'esperienza indotta, si manifesta nell'adolescenza ma solo con gli ausili individuali dello spirito si sedimenta qualcosa di vivace e pacato, dinamico e saggio.
Mi spiega con naturalezza come l'Islam sia l'evoluzione delle religioni monoteiste, di profeta in profeta, e di come rispetti le altre confessioni, riconosca tutti i testi sacri; tra me penso a una sorta di evoluzionismo teologico e sorrido. Timidamente dico che tutte le religioni hanno la loro dignità e che ci deve essere un Dio per tutti gli uomini, di cui non conosco il nome e ognuno dà un nome differente per un senso comune. Allora prova ad arguire citando il paradiso e l'inferno ma per me si fa troppo difficile e dribblo parlando di comportamenti buoni e giusti, di non ledere il prossimo e nuovamente parliamo la stessa lingua.


UN NAUFRAGO SGUARDO DA UNA NAVE IN SECCA
Venerdì dal quieto distacco, dal sofferto insoluto, dai vetri rotti. Guardo il palazzo di fronte e tutte le finestre spoglie, infrante, contuse. Cartoni e teli attaccati agli infissi serrano bocche che hanno urlato al fragore delle bombe, si oppongono al freddo che preme in un lotta impari. Ho passato marzo a battere i denti in un clima che aveva poco di esotico ma era nulla a confronto dell'inverno passato dai palestinesi, dei 22 giorni in gennaio nel frastuono e tra i lampi che hanno mandato in frantumi ogni vetro, senza più luce, gas, nulla per riscaldarsi o mangiare.
Le facciate, le pietre, le solide pareti, animiste creature ripiene di vita, immobili totem hanno assistito alla furia e alla morte, registrato ogni ingiustizia, assorbito nell'intimo di elementi spugnosi lo scempio, sole sostanze rimarranno nel tempo a conservare memoria della miseria umana, edifici animati rimasti in piedi, statici giganti, a loro volta tremolanti, deboli, improvvisamente fragili sotto la minaccia costante di essere penetrati e violati, afflosciati da un vento cattivo.

Al Salam, il villaggio violato, disseminato da dune funeree, da gobbe contorte di ferro e cemento.
Sulla cima di una rovina un uomo segnato dal sole e dal lavoro, lo sguardo vacuo di chi ha perso tutto, scende venendomi incontro, la forza residua di un sorriso e un gesto di benvenuto ha un'origine a me sconosciuta. Si chiama Hakmad, si avvicina un bambino sui cinque anni che gli si appiccica al pantalone, mentre riceve la mano paterna in un gesto di consolazione. Sì, mi risponde, è il proprietario di quella che era una casa. Gli hanno ammazzato anche quindici mucche. Come ogni contadino di questo mondo, non voleva abbandonare la casa quando gli era stato intimato, sono usciti correndo, con tutta la famiglia, mentre il tetto crollava giù sulla testa; hanno camminato a piedi fino a Jabalia, un paio di chilometri, sotto un temporale di fuoco.

Più avanti una famiglia si è accampata sotto un varco della loro casa disintegrata. Ora è una caverna. Ringraziano Dio per un frigo donatogli il giorno prima, tutto il resto è perso tra i blocchi di cemento armato, il palazzo aveva tre piani e ospitava venti persone. Dalla grotta una donna su una sedia, immobile sembra una mondina che ha perso il raccolto, sul letto affianco i tre figli ammassati, senza saper dove andare in un luogo privato del proprio contesto.
Il padre, Zaied Khader, si rivolge a noi con scienza e coscienza, improvvisa un discorso.
Ringrazia i visitatori, esprime riconoscenza per il popolo italiano e cordoglio per le vittime del terremoto ma si dispiace per il Governo d'Italia, come del resto d'Europa. Muto di fronte al loro dramma, incurante dei crimini da loro subiti, sostenitore delle scelte di Israele nel distruggere il popolo palestinese, il Governo italiano dovrebbe invece fare pressione affinché l'assedio finisca. L'assedio della scarsità di acqua, dell'elettricità razionata, dell'impossibilità di importare materiale edile che li destina a una vita da baraccati, del cibo dispensato loro in elemosina, mentre viene impedito loro di lavorare, dei pescatori minacciati, della dignità negata.
Invita i Ministri italiani a venire, visitare i campi profughi e le rovine, a comprendere di persona la violazione di ogni diritto umano che si consuma con l'occupazione militare e l'assedio, a fare una comparazione tra gli insignificanti danni subiti dai razzi della resistenza e la distruzione totale a Gaza.
Racconta che ha lavorato trent'anni in Israele, con i soldi laggiù guadagnati si era costruito la casa, la casa distrutta in un secondo. Alla sua famiglia sono state distrutte ben 35 case. “Dov'è la democrazia di cui parlano?” ci domanda, domanda, vorrebbe domandare ai nostri ministri.
Raggiungiamo un signore anziano, i vestiti tradizionali, una espressione di una folle disperazione, gli occhi acquosi come di un pianto senza fine. Il ricevimento è pur sempre gentile, è il Mokhtar della famiglia, il primo Moktar che conosco, e gli chiedo il permesso per una foto ritratto che mi viene concessa con un sorriso, con la solita ospitalità proverbiale. Poco più in là una tenda accoglie bambini di fronte a un televisore, come nel surreale momento di una normalità ritrovata. Una ragazzina si volta e mostra al mio obiettivo inattesi occhi azzurri di una intensità pacata, di una luce sospesa tra sogni dell'infanzia fuggiti e futuri negati.


LA RIVELAZIONE (Armageddon)
Ieri, mentre scrivevo, la luce è stata interrotta ben cinque volte: per venti minuti, un paio d'ore, otto ore; questa è la norma da due anni almeno, anche questa è guerra. Deprivazione, offesa, intimidazione, ricordare a ogni giugulare pulsante di Gaza di quanto insignificante e precaria sia qui la vita, di quanto un lontano arbitrio possa impossessarsi, padrone, del destino di ognuno.
Fino alla soluzione finale, Armageddon, l'arma nucleare, come l'attuale Ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha pacatamente consigliato di usare durante la scorsa aggressione. Deve aver pronunciato così pacatamente tanto orrore da raccogliere, forse, anche l'approvazione dell'amico Veltroni, che, come tutti gli sceriffi del mitico West, non ha mosso ciglio. Tacita approvazione.

Durante la mia scrittura, Shads mi ha fatto visita in camera. Le traduco ciò che scrivo di lei e ricevo la sua approvazione.
E' preoccupata. Nella premura, tipica dell'adolescenza, mi manifesta il suo tormento, richiede il mio intervento per una immediata soluzione.
Ricomincia con la storia del Paradiso e l'Inferno, della necessità di rivolgere ogni azione a Dio, di pregare ed essere devoti.
Inizia a parlare della morte, come se gli fosse accanto, come fosse accanto a me, con familiarità, ride pure, allora ci scherziamo un po' sopra.
Comunque non c'è tempo, insiste, sembra quasi pregarmi affinché io decida di fare il passo finale, per salvare la mia anima al cospetto di Dio. Mi manifesta il sua affetto, è sincera, dice che sono meritevole, che la morte è sempre improvvisa e noi ne ignoriamo il sopraggiungere, che manco dell'elemento fondamentale alla salvezza: la fede. Mi chiede di convertirmi per pregare nell'adeguata maniera.
Dal colloquio precedente, magico e seducente, come seducenti sono le vie dello spirito, mi distacco e assumo un atteggiamento analitico, ma non critico per non apparire ostile a sentimenti così intimi. Parliamo a lungo, finché arriva una risposta che mi illumina, non nel cuore ma nella mente. Shads mi racconta il tempo in cui la fede si è rivelata in lei con tanta forza. Mi dice che lei era come le sue sorelle, non usava copricapi, portava abiti succinti, mostrava la propria bellezza e non si curava dei precetti coranici ma.
Ma sotto la guerra.
Ma sotto le bombe.
Ma nella morte imminente.
Ma nei teneri diciotto anni ancora da compiere, a Shads si è rivelata l'unica cosa che in questo mondo può essere salvata: l'anima.
Lungo i 22 giorni di terrore, mentre ogni lembo del proprio corpo poteva essere strappato e dissanguato, dove non esisteva protezione o corte, autorità od ordine a cui poter mostrare la propria innocenza, la propria incoscienza, la propria freschezza, la propria giovane appartenenza a un mondo miserabile, Shads ha scoperto ti essere piena di peccati, di non essere meritevole al cospetto di Dio, di non osservare i precetti, che se fosse morta non avrebbe goduto dello status di martire (Shaheed) che gli avrebbe aperto la strada diretta per il Paradiso.
La parola “shaheed” mi mette i brividi, accuso la disperazione, percepisco l'urlo della vita soffocata. Una ragazza intelligente, con doti artistiche nel disegno e nel canto, con l'aspirazione a diventare un giorno medico, supportata da una famiglia moderna ma anche etica, osservante ma anche laica. Ha paura dei propri peccati, peccati di ragazzina, ha paura che mostrando i propri capelli, le proprie braccia, le proprie mani non faccia cosa grata a Dio.
Ha paura.
Diritti Umani, Democrazia, Progresso, Giustizia, Dignità: tutte parole spazzate via con la forza delle armi, non danno risposte alle paure di Shads, malgrado siano le parole con cui è stata educata da un padre progressista.

Cosa sta facendo l'Occidente a questo mondo, una volta gentile e tollerante?
Milioni di afgani, iracheni, persiani, palestinesi, libanesi, giordani, egiziani. Oltre 1,3 miliardi di musulmani sono costantemente umiliati, in particolare negli ultimi otto anni. Oltre un milione di iracheni uccisi in una delle guerre più oscene e bugiarde della Storia. Il popolo palestinese da 61 anni paga per una continua pulizia etnica che è riconosciuta solo dagli storici in ambito accademico ma non trova voce nella diplomazia internazionale. I paesi arabi più corrotti e autoritari godono del complice silenzio delle Superpotenze che spartiscono i dividendi del petrolio tra poche famiglie locali, privando le popolazioni di risorse e sviluppo. Ogni paese che negli ultimi 30 anni si è affacciato sulla soglia della modernità, si è dato un ordinamento laico per raccogliere la sfida della Storia Contemporanea, è stato ricacciato indietro, minato nell'interno con i dollari dall'esterno, corroso e assediato da forme di fondamentalismo sempre finanziate, direttamente o indirettamente, dai servizi di intelligence occidentali.
E' innegabile che gli USA hanno vinto la Guerra Fredda anche per il sostegno, dato e ricevuto, dell'integralismo islamico, è innegabile che, oggi, chiedano il conto, un conto che il mondo arabo sta pagando a duro prezzo, col prezzo del sangue: dall'Algeria, alla Bosnia, correndo fino al Pakistan.

E' di oggi la notizia dell'ennesimo attacco suicida in Iraq.
Due donne, cariche di esplosivo, si sono fatte esplodere in un santuario sciita, uccidendo 60 persone. Chi erano queste due donne? Qual'è la tragedia, il dolore, la follia che porta a un gesto tanto atroce?

Liberatevi da ogni irrazionale pregiudizio, distillato da una stampa scellerata giorno per giorno, e pensate che non esiste alcuna cultura, alcuna religione che spinge a un gesto tanto estremo. E' solo disperazione, una tremenda disperazione condita da una ignoranza indotta, di cui siamo tutti colpevoli, colpevoli di subire un costante plagio, malgrado siamo tutti forniti degli adeguati strumenti culturali per riconoscere che “il re è nudo”.
Quando mi sono interessato a degli studi epidemiologici sui costi umani della guerra in Iraq, mi sono imbattuto in indagini e testimonianze sconvolgenti sugli squadroni della morte (http://www.brusselstribunal.org/index.htm) e sui metodi “sudamericani” adottati, inusuali sul campo mediorientale, mentre John Negroponte era ambasciatore a Baghdad. Lo stesso che era ambasciatore in Honduras negli anni '80, con gli stessi squadroni della morte, almeno per metodo. Lo stesso che sosteneva i Contras in Nicaragua, guarda caso sovvenzionati con soldi iraniani. Gli stessi iraniani che dal 2003 sono alleati, sul campo, con l'intelligence americana per soffocare la resistenza nazionale; malgrado i Media tacciano sulla santa alleanza, continuando a farneticare su fantomatici conflitti in Persia che sono puntualmente disattesi, Media troppo impegnati a crociate atte a fomentare guerre di religioni tra i poveri.
Il Conflitto di Civiltà non esiste, nessun popolo lo vuole, lo cerca, lo desidera.
“Dividi et Impera”, è questo l'unico conflitto, e presto ne pagheremo il prezzo in tutto il Mondo.

Dal Paradiso negato di Gaza
Siamo tutti assediati



mercoledì 22 aprile 2009

COME SEVIZIARE I DISABILI E FARLA FRANCA

di Marcello Sordo, Gaza

Al Salam significa “La Pace”. Quest'area era così chiamata per la caratteristica mitezza dei suoi abitanti, in prevalenza contadini. Salgo sul tetto dell'unico edificio rimasto in piedi, insieme a Vittorio Arrigoni e quattro attivisti di una Ong di Genova.
Le truppe di occupazione ne hanno fatto il loro quartiere per controllare la zona, lo hanno scelto per la posizione e per la struttura massiccia in cemento armato.
Gli israeliani, in gennaio, hanno dato cinque minuti di preavviso alle centinaia di abitanti di sgombrare la zona, mentre già F16 e zanana facevano piovere dal cielo il fuoco della persuasione.

In questa bella casa, dalle fattezze patrizie, vivevano una ragazza cieca e due disabili anziani. Questi, sicuri che la loro condizione avrebbe guadagnato la pietà dei militari, si sono rifiutati di accodarsi al resto della famiglia nella fuga, nel timore di rallentarne il corso. Purtroppo le loro speranze di compassione erano mal riposte.
La loro casa, divenuta una caserma improvvisata nonché postazione di cecchini, si è pure trasformata in luogo di prigionia e vessazioni. I tre sono stati rinchiusi in uno stanzino per dieci giorni, nutriti saltuariamente con gli avanzi dei ranci. Quando, in preda al terrore, si riunivano in cerchio per pregare, i militari facevano irruzione e iniziavano a picchiare; la ragazza, in particolare, veniva continuamente offesa e brutalizzata, mentre i militari la pressavano affinché confessasse una improbabile appartenenza ad Hamas. La ragazza, esausta, addirittura consigliava loro di controllare i propri numeri sul cellulare, affinché verificassero che non possedeva nessun indirizzo relativo alla resistenza. Solo dopo dieci giorni la Croce Rossa è riuscita a ottenere il rilascio delle povere creature, mentre intorno il villaggio si era trasformato in uno scenario lunare.

Quando la famiglia ha fatto ritorno, dopo il 18 gennaio, la desolazione era totale, tutti gli interni erano distrutti. Una furia barbara aveva infierito su ogni mobilio, disarticolato ogni oggetto come se il soldato volesse emulare la ben più temibile forza dei jet o dei bulldozer, sfregiare quanto più nel profondo una identità etnica percepita diversa e inferiore, mostrare quanto più odio e disprezzo possibile, intimando paura anche attraverso scritte sui muri ingiuriose verso il mondo arabo e la religione, anche con escrementi strisciati sulle pareti ferite.
I pochi averi e ori nascosti in casa erano scomparsi, come in un saccheggio medioevale ma questo appare normale nella lunga pulizia etnica che occorre in Palestina dal 1948, senza interruzione. Come nelle periodiche incursioni in Cisgiordania, in cui spesso capita che i tank entrino direttamente nelle banche per fare bottino.

WEAPONS of MASS DISTRUCTION
Il tetto predomina su Al Salam. Intorno non rimane più nulla, centinaia le case distrutte: prima stormi di F16 e zanana, fosforo bianco, Dime, esplosivi di ogni genere e potenziale, carbonio, tungsteno, arsenico, ogni fantastico prodotto della scienza atto a disintegrare, uccidere, amputare, rendere le ferite non guaribili, le gangrene inarrestabili, il terreno avvelenato chissà per quanto.

Mi mostrano il guscio di un proiettile aereo di plastica, ancora visibili le scritte in ebraico. La plastica lo fa apparire innocuo, malgrado la dimensione sia di una cinquantina di centimetri e il diametro di una decina. Esplodono a un metro dal suolo e sparano migliaia di frammenti intorno, perforando ogni cosa, anche il ferro dei container, frammenti in carbonio non sono rilevabili ai raggi X, impedendo ai chirurghi di fermare le emorragie.
Il fosforo bianco accompagna la fuga generale come in uno scenario biblico, le palle di fuoco perforano e incendiano ogni cosa, bucano i tetti, proseguono la loro corsa di piano in piano fino a raggiungere il suolo e continuano a bruciare, sequestrando ossigeno dall'aria, dall'acqua, dal sangue, come un fuoco eterno, una magica alchimia. Quando colpisce la pelle, penetra veloce nella carne, vampirizza l'ossigeno dei tessuti, acquista vigore, corrode, fino a trovare la via di fuga opposta all'impatto.
Seguono i carri armati e i cecchini. I comandi sono chiari: distruggere tutto, sparare su ogni cosa si muova e, perché il lavoro sia completo, i bulldozer intervengono appiattendo ogni residuo, sradicando ogni pianta, cancellando ogni traccia di vita dal terreno.

Verso est è riconoscibile la strada che percorre la Linea Verde, ogni tanto è attraversata da una jeep militare, ogni tanto cecchini scendono e tirano a qualche contadino che ha commesso l'imprudenza di coltivare troppo a ridosso del confine. Piccoli e lontani gli alberi giudei, come se anche ai prodotti della terra fosse stata imposta una razza o una confessione, mentre al di qua ogni cosa è stata sradicata, tranne la forza di resistere.
Mi incanto a guardare un appezzamento di terra ordinato e coltivato, disseminato di piccoli alberi da frutta alti nemmeno un metro. A tre mesi dall'armageddon i primi terreni vengono riportati a nuova vita come luce che squarcia il buio, la resistenza è un corpo che si rigenera e i tunnel sono le arterie attraverso cui un milione e mezzo di persone trovano la forza di esistere ogni giorno con un duro lavoro, a dispetto di un mondo che li nega, a dispetto di ogni luogo comune di matrice razzista.

La costanza di queste genti nel lavoro è ciò che più commuove, da 60 anni, con un sorriso rivolto al forestiero, e gli occhi al cielo, ricostruiscono il maltolto periodicamente distrutto. Come i cordoli dei marciapiedi: i tank sono soliti divertirsi zigzagando lungo i viali per polverizzarli e sistematicamente ogni volta i palestinesi li ricostruiscono, in una delle tante impari sfide. Però ora la ricostruzione si è fatta difficile perché l'assedio non consente il passaggio di alcun materiale edile. Cemento, legno, ferro, vetro, tutto negato a un Paese distrutto. Oltre 100 mila abitanti di Gaza sono rimasti senza casa (dati OMS). Per loro non c'è futuro perché non è concessa alcuna ricostruzione, a oltranza. I territori sono disseminati di tendopoli, bambini strappati alle loro camere, ai loro libri, ai loro giochi si radunano sotto una tenda per guardare cartoni alla televisione, sfuggendo per un momento all'orrore che li accompagna. Alcune famiglie, impavide, improvvisano giacigli sotto le macerie delle proprie case, a volte ville andate disintegrate: fieri affermano che quella è la loro casa, tutti i loro averi giacciono sotto quelle macerie, è lì che devono stare, mentre su ogni cumulo sventola la bandiera di Palestina.

Bandiera dalle tre bande: verde, bianca e nera. Nera è sempre la banda rivolta verso l'alto, sempre, come nera è la Nakba, la catastrofe, la pulizia etnica che da 60 anni non trova giustizia, soluzione, riconoscimento dalla Politica Internazionale. Come nera è la guerra e la violenza imposta a un popolo di contadini, commercianti, beduini, mussulmani, cristiani, drusi, circassi, ebrei, che per secoli hanno vissuto in pace, in comunità prevalentemente rurali ma anche in città, finché un tale di nome Theodor Herzl coniò la parola “Sionismo” e il compare David Ben Gurion realizzò il sogno coloniale di conquista ed epurazione nella millenaria terra di Palestina.


“OCCUPARE il QUARTIERE, DISTRUGGERE TUTTE le CASE”
Itzhak Levy, 1948
Ilan Pappe, in “La pulizia Etnica in Palestina”, dedica un intero capitolo alle città distrutte ed evacuate dalle milizie ebraiche nel 1948.
A Tibiriade, dove per secoli avevano convissuto in pace 6000 ebrei e 5000 arabi, tutti palestinesi, le forze dell'Haganà in pochi giorni misero in fuga tutti gli arabi. Dopo pesanti bombardamenti fecero rotolare dalle colline bombe-barile e diffusero con altoparlanti terribili frastuoni per allontanare la gente. Pappe paragona queste tecniche a versioni primitive degli odierni voli supersonici sul Libano e sui Territori Occupati.
La dearabizzazione di Haifa iniziò nel dicembre '47 con una campagna terroristica fatta di pesanti bombardamenti, cecchini, fiumi di olio e carburante in fiamme buttati giù dalle montagne, barili di esplosivo lanciati sulle folle. Mentre le classi benestanti palestinesi evacuarono le loro case dall'inizio, verso residenze in Libano, per altri 55 mila arabi rimasti fu un macello.

“All'alba del 22 aprile la gente cominciò ad affluire al porto. Poiché in quella parte della città le strade erano già superaffollate di persone in fuga, i leader improvvisati della comunità araba tentarono di mettere un po' d'ordine nel caos. Si sentivano altoparlanti che spingevano la gente a radunarsi nella vecchia piazza del mercato vicino al porto e a radunarsi lì fino a quando non si riusciva a organizzare un'evacuazione ordinata via mare. “Gli ebrei hanno occupato Stanton Road e stanno arrivando”, urlava l'altoparlante.
Il diario di guerra della brigata Carmeli (ebraica) mostra ben pochi rimorsi su ciò che avvenne in seguito. Gli ufficiali della brigata, sapendo che la popolazione era stata avvisata di radunarsi vicino all'entrata del porto, ordinarono agli uomini di piazzare mortai da tre pollici su pendii della montagna sopra il mercato e il porto e di bombardare la folla che si ammassava lì sotto. Questo per impedire alla gente di ripensarci e di assicurarsi che la fuga avvenisse in un'unica direzione. Una volta che i palestinesi si fossero radunati nella piazza del mercato -un gioiello architettonico risalente al periodo ottomano con tetti a volta, ma irriconoscibile dopo la sua distruzione successiva alla creazione dello Stato di Israele- sarebbero stati un facile bersaglio per i tiratori scelti ebrei.
Il mercato di Haifa era a circa trenta metri dall'entrata principale del porto. Quando iniziò il bombardamento questa era la naturale via di fuga per i palestinesi presi dal panico. Quindi la folla fece irruzione nel porto scavalcando i poliziotti di guardia all'entrata. Centinaia di persone presero d'assalto le imbarcazioni ormeggiate e cominciarono a fuggire dalla città.” da Ilan Pappe: La Pulizia Etnica della Palestina.
Pappe prosegue citando lo storico Walid Khalidi da Selected Documents on the 1948 war: “uomini che calpestavano gli amici, le donne e persino i propri figli. Le barche si riempirono subito di un carico umano, e tutti erano orrendamente pigiati. Molte barche si capovolsero e affondarono con tutti dentro”.

Seguì l'epurazione di Safad che contava 9500 arabi e 2400 ebrei.
La campagna di pulizia che toccò a Gerusalemme è ricordata da un allora capo dell'intelligence dell'Haganà: “Cominciarono i saccheggi e i furti. Vi presero parte sia soldati che cittadini (ebrei). Irruppero nelle case e portarono via mobilio, abbigliamento, attrezzature elettriche e cibo” Itzhak Levy da Jerusalem in the War of Indipendence. Nel suo diario di orrori ricorda gli ordini impartiti agli ebrei: “occupare il quartiere e distruggere tutte le case”.
Un ordine che si è succeduto a Safat, Acre, Nazareth, Baysan, Jenin, Tul-Karem, Lydd, Jaffa, Ramla, Majdal, Hebron, Gaza e in migliaia di villaggi, fino ad oggi.
Lascio al lettore ogni comparazione e riflessione su sessantun anni di storia che si susseguono come un incubo senza fine.

Mentre scrivo da lontano giungono i boati sordi delle batterie delle navi da guerra, sparate contro i pescatori, nel cielo ronzano i zanana, a Rafah qualche F16 è a caccia di tunnel da distruggere, lungo i confini i cecchini vigilano, in West Bank le case e i campi vengono distrutti intanto che si prepara una nuova intifada fatta di pietre e urli di disperazione.
Un palestinese indica la propria bandiera: “un giorno verrà la pace e tutti i profughi faranno ritorno alle proprie case, quel giorno in cima alla bandiera svetterà la banda verde della vita e della terra, mentre il nero sarà rivoltato in basso, come un vecchio, brutto ricordo”.


venerdì 17 aprile 2009

LA BUONA CONVIVENZA

di Marcello Sordo, Gaza

Lunedì prossimo, dopo 37 giorni vissuti dentro l'ospedale Al Awda, mi trasferisco ad Al Jabalà, quartiere popolare tra la periferia di Jabalia e Gaza City. Sarò ospite di una cara famiglia che mi ha accolto con l'affetto e il calore che, dalle nostre parti, si è soliti riservare agli amici o familiari più stretti.
Il valore dell'ospitalità qua è un valore assodato e non sbiadito, appartiene ancora a concetti di sacralità che rendono la convivenza armonica e dinamica, nei gesti gratuiti di scambio che generano rispetto e alterità, dentro a rituali che sostengono una cultura sociale consolidata, ben oltre i mutevoli rapporti interpersonali.

Venerdì scorso, il giorno festivo nei paesi musulmani, ero a pranzo dalla famiglia. Abbiamo mangiato dell'ottimo Maftul, il locale Cous cous. E' ancora abitudine che si mangi tutti intorno al grande piatto farcito dalla pietanza, con grandi pezzi di carne al centro che si dividono e condividono con le mani, intorno piattini ricolmi di insalate, salse, olive e tutto ciò che fa venire in mente una dieta mediterranea. Per me hanno riservato un piatto a parte, per rispetto delle mie usanze europee, anche se sarei stato ben felice di mangiare in comune con i miei amici; però la cosa si è fatta divertente perché il ragazzino di 13 anni affianco, dagli occhi intensi e vispi tipici, continuava a riempirmi il piatto di cous cous, mentre la mamma e poi il papà mi allungavano pezzi di carne, con sorrisi dolci che invitano l'appetito.
Il rispetto delle usanze altrui è evidente in tante manifestazioni e la naturalezza nell'adempiere agli obblighi sociali e religiosi non mette mai in imbarazzo l'ospite.
Credo che uno dei più grandi insegnamenti che sto acquisendo risiede nella convivenza civile e nel rispetto dell'altro, non contaminato da alcun desiderio di redimere o educare chi è diverso ma con la semplice richiesta di essere rispettati nei propri precetti.
Un piccolo esempio l'ho avuto in taxi alcune sere fa. Nel caricare un nuovo cliente, l'autista ha interrotto un pezzo di musica popolare, pur non avendo avuto alcuna richiesta. Alla dipartita del cliente, l'autista ha riattivato la musica, niente male oltretutto. Da lì ho dedotto che il fugace avventore doveva essere un religioso e che al taxista non pesava affatto interrompere per un momento il suo piacere.
Durante il pasto la mamma mi ha raccontato che è tradizione che al venerdì una famiglia cucini per i vicini, così mi diceva che altre quattro famiglie si stavano gustando quella delizia, che così diventava ancora più gustosa.

Convivenza e rispetto, accoglienza delle altre culture, dall'osservazione mi vengono in mente letture in cui si parla di come cristiani ed ebrei abbiano vissuto inseriti in società musulmane, in pace per secoli. Mi viene in mente come circa 20 mila giudei vivano in Iran, malgrado Ahmadinejad venga accusato di antisemitismo ogni giorno dai Media Occidentali, penso alle culture diverse che sono state accolte per tanto tempo in seno alla cultura araba, ora sanguinante e umiliata. Penso alla società multi confessionale dominata da Saddam Hussein, laica e ricca di cultura, sapere, università, avanguardia del mondo arabo per professionisti, intellettuali, scienziati. Oggi arretrata di secoli in soli sei anni e dominata dal fondamentalismo religioso, con la propria intellighenzia sterminata o fuggita a causa di squadroni della morte di dubbia natura.
E ripenso alla Nakba, che ha spazzato una secolare convivenza dove poteva capitare che un Imam di una moschea fosse guardiano della chiesa e del monastero cristiano, all'interno dello stesso villaggio (Sirin, distrutta il 12 maggio 1948, insieme alla moschea, la chiesa e il monastero).


La buona famiglia

Il papà Abu Majed è alto e grande, austero e bonario, senza un filo di grasso mantiene la struttura di un atleta, in casa è premuroso con la moglie Halena, alla quale è sempre affianco nelle faccende domestiche. Halena è infermiera e lavora per le Nazioni Unite, come il marito. Con lei ci perdiamo in chiacchierate sulla professione, la famiglia, la vita, è apprensiva verso i figli come tutte le mamme del mondo, perché non esistono mamme che sognano il martirio dei propri figli, come una certa stampa salottiera e compiacente vuole far credere.
Le tre sorelle Majd, Shahed e Tamama, tra i diciannove e i sedici anni, sono tutte bellissime, piene di vita e di sogni, studentesse un po' giudiziose e un po' ribelli, come tutte le adolescenti del mondo inseguono la propria primavera, giocano con gli sbalzi di umore, godono e soffrono per la stagione romantica che le attraversa, tra lunghe telefonate e momenti perduti davanti a qualche telenovela.
Mohammad è l'ultimo della famiglia, di tredici anni, iperattivo insegue il mondo a cavallo della sua bicicletta piena di frange e colori, con dietro volante la bandiera di Palestina.
Majed è il mio amico che già da Genova conoscevo grazie alla tecnologia, skype, internet. Tutti strumenti che hanno aggiornato il Mondo sul dramma palestinese, sui crimini consumati dall'esercito israeliano durante i 22 giorni di terrore, che hanno mostrato bambini, donne, uomini freddati da una furia che considerava ipocritamente “nemico” tutto ciò che si muoveva, comprese ambulanze, animali, bandiere bianche e dell'ONU sventolanti.
L'orrore che ha mantenuto un milione e mezzo di persone perennemente dentro l'incubo di una roulette russa in cui chiunque, random, poteva essere ammazzato è uscito dalle libere pagine del web, dai resoconti dei volontari umani che avevano sfidato l'assedio per venire in soccorso a questa gente e, da sotto le bombe, informavano coraggiosamente il mondo insieme ai tanti fratelli palestinesi armati di macchine digitali per foto e video e di soli computer.
Majed ha vent'anni, il fratello maggiore della famiglia, ricurvo sotto il peso dell'inseparabile computer gira per Gaza a caccia del proprio futuro, si propone, progetta, vuole essere protagonista di una ricostruzione in cui pochi credono. Non sembra seguire una stirpe guerriera ma piuttosto, come un poeta, rimane sospeso tra un temperamento soave e un'adolescenza bruciata, estirpata, teso tra un istinto di fuga che gli fa sognare l'Europa, come la terra promessa dove non piovono bombe, e l'ambizione del sognatore che si vorrebbe prodigare per i bambini di Gaza, trascurando gli impegni all'università.

Una bella famiglia, una famiglia che si potrebbe considerare fortunata e di buoni principi. Una famiglia che conduce la propria lotta quotidiana con il lavoro, le buone maniere, la giusta educazione per i figli e che, tra le bombe, al buio, senza cibo né acqua, danzavano e ballavano in giro per la sala ammazzando il tempo, un lunghissimo tempo.

martedì 14 aprile 2009

Infermiere di Al Awda ferito durante i soccorsi

"soccorritori vestiti di bianco e d`arancio caricano un ferito sull`ambulanza, riconosco il mio amico, ritornano nell`oscurita` cercando qualcosa, le torce si muovono nervose, puntano nel buoio, un cadavere, iniziano gli urli, "via, via", sembrano dire in arabo, veloci tornano all`ambulanza come di fronte al demonio, allora iniziano gli spari, uno ... Visualizza altrodel gruppo cade, gli chiedo se e` lui, no si rialza e raggiunge il mezzo con i lampeggianti rossi e rassicuranti. Lui e` rimasto indietro, confuso tra la polvere che si e` sollevata, dove un elicottero (israeliano) l`ha colpito"

Dal Blog: Sguardi di Resistenza Desiderosi di Pace


http://www.facebook.com/video/video.php?v=61179004237&oid=46141342369

mercoledì 8 aprile 2009

COME CADONO LE BOMBE

di Marcello Sordo, Gaza

Può capitare che quando ci si corica un acuto ronzio sovrasta la testa, satura la camera, impedisce il sonno come una zanzara, una metallica zanzara.
Ci si affaccia alla finestra ma l'oscurità non rivela niente, si guarda ai generatori di elettricità che Giustificarispondono muti, perché in quel momento, come per grazia ricevuta, la corrente è fornita dalla centrale elettrica di Israele.
Ci si ricorica e viene in mente la televisione satellitare a tratti disturbata e inguardabile per le interferenze che rendono l'immagine cubiforme o un giorno in cui un amico segna il cielo e chiede: “Senti il rumore? Sono sopra di noi ora, capita tutti i giorni”.
La permanente esposizione di Gaza ricorda il collo caldo e palpitante di una preda, con tutta l'eleganza e grazia di certi animali che, negli spazi aperti, mantengono una costante attenzione, mentre godono dei frutti della natura circondati da cuccioli, unico slancio in avanti ed espressione di un futuro per chi un futuro non ha.

ZENANA
Majed è un mio collega, lavora in chirurgia e parla un buon inglese. E' alto, robusto; baffi e reyban fanno venire in mente il Messico ma l'esuberanza giovanile mi riporta a “happy days”. Da un po' mi invita a casa sua, per pranzo, a conoscere la famiglia. Il suo invito si associa a tanti altri ed è difficile onorarli tutti, perché l'ospitalità è veramente incredibile e un invito a pranzo è roba seria da queste parti, prende tutta la giornata, un po' come in giro per la Calabria e la Sicilia.
Decidiamo di fare una passeggiata per Jabalia Camp dopo il lavoro, visto che lui è della zona. Come ogni abitante del Mediterraneo si parte dal cibo, così mi accompagna nel miglior ristornate dove mangio un ottimo shoarma, pollo arrotolato nel pane arabo e condito con salsa di yogurt; lui preferirà più avanti un panino ripieno di fegatini e cipolle alla piastra, venduto in carretti sulla strada da simpatici fattori. Mentre si parla di cucina mediterranea mi indica le rovine intorno alla piazza: una caserma della polizia sulla destra, un palazzone in cui c'era qualcosa di Hamas sulla sinistra.
Ci dirigiamo verso “Al-Assria”, un centro culturale per bambini e adolescenti gestito dalla UHWC, la Ong di Al Awda. Prendiamo la strada opposta al centro culturale e ci immettiamo dentro una fitta rete di vicoli pieni di umanità, tipici di Jabalia Camp e della maggior parte dei campi profughi palestinesi in Medio Oriente. Majed mi sta conducendo a vedere le case perdute da due suoi parenti.
Pare naturale che quando qualcuno ha delle ferite profonde le voglia mostrare o, forse, le voglia denunciare a un mondo esterno che appare assente.

Troviamo in una traversa a destra quello che dovevano essere tre palazzi.
Del primo, che era di cinque piani, da un lato si può toccare il tetto salendo su uno sgabello. Ci abitava lo zio, della famiglia Abuwad, insieme ad altre sette famiglie.
Per una manciata di minuti hanno evacuato la casa prima che venisse abbattuta, insieme al palazzo affianco e la terza casa. Tuttavia ci sono stati quattro feriti e un ragazzo di 18 anni è morto nella fuga, schiacciato da un pilone.
Alle ore 20 di quella sera un vicino si mette a urlare ai dirimpettai dei palazzi che saranno colpiti. Ha sentito un botto e visto il fumo uscire dal tetto della prima casa.
L'unico avvertito del pericolo sbraccia e allerta dalla finestra, è una fortuna che, mentre le famiglie erano affaccendate nelle questioni domestiche, ignare, tra vociare di bambini, televisioni accese, musica o che altro, il vicino sia riuscito a mettere tutti in fuga. Dal primo botto, che non era stato avvertito dagli abitanti colpiti, passano appena cinque minuti che gli F16 dal cielo mandano tutto il loro carico di morte a spazzare via ogni traccia dell'esistenza che aveva riempito quelle case.

Si chiamano candidamente “warning bomb”, quelle cacciate pochi minuti prima dai droni, aerei senza pilota che sorvolano continuamente la terra di Gaza come predatori attenti, con inserita un'alta tecnologia programmata per puntare le prede, mandano un ronzio metallico dal cielo e creano interferenze, qua vengono chiamate in modo familiare “zenana”.
Lo scopo è di rivelare l'obiettivo agli F16 e dovrebbero avvisare gli occupanti dell'imminente distruzione. Purtroppo la frazione tra la bomba di avviso e la distruzione totale è di pochi minuti, tra i tre e i dieci, e il colpo nel tetto spesso non viene percepito dagli abitanti: colti nel sonno, attorniati da bambini, immersi nella vita quotidiana.

Saliamo nel secondo palazzo, è ancora in parte praticabile ma ogni parete è squarciata come un abito che espone un corpo violentato. Intorno resti di vita fanno immaginare la fuga precipitosa di quella notte: vestiti di donna, di uomo, di bambini, si confondono tra i detriti. Dei ragazzi ci accompagnano nel viaggio spettrale, volti sorridenti e ospitali, assuefatti dalle macerie che nascondono migliaia di altri volti.
Dal piano superiore attraversiamo una voragine che ci porta sul tetto del primo palazzo, da sopra mi rendo condo della vastità che occupa il palazzone distrutto, restituendo l'idea del perimetro originario.
Mi indicano un buco di circa cinquanta centimetri: la traccia lasciata dalla zenana.
Questa volta la fortuna ha voluto che non ci fosse gente nel solaio.
Intorno mi accorgo che la distruzione è ben più ampia e, interrotte da giardini e da orti, tra i vicoli stretti sono molte le case sventrate.

Riprendiamo il corso dei vicoli: abbandoniamo macerie per attraversare macerie e raggiungere nuove macerie. Intorno ferite di interni rivelano l'intimità di vite private: armadi, culle, cucine, serramenti nuovi ormai desolati, resti di impianti costruiti a norma.

Cumuli di macerie sono scaldate da un fuoco attorniato da profughi che preparano il tè. Una numerosa famiglia è riunita sulla strada, davanti ai resti della loro esistenza.
Più in là Majed mi mostra nuovi resti, dove prima c'era una casa di due piani, quattrocento metri quadri, cinque appartamenti; il verde sul tetto afflosciato rivela gli avanzi di un giardino curato.
In questa casa la “warning bomb”, oltre a non svolgere la propria funzione di avviso, ha centrato in pieno un bambino di tre anni.
I bambini accampati di fronte alle spoglie hanno ora un amico in meno. Dalla casa vicina esce un ragazzo sulle stampelle, Karam, era un residente, ora è profugo ospite con la famiglia dai parenti vicini. Profugo due volte, prima dalla terra originaria divenuta Israele, poi bombardato dallo stesso potere che cacciò i suoi avi. Viene seguito dal resto della famiglia, racconti di disastri narrati da occhi che sorridono bevendo caffè.

LA MAMMA DI MAJED
Infine ci dirigiamo a casa di Majed, sobria e spaziosa ha fuori un profumato giardino.
La mamma ci accoglie con un bel sorriso, dietro una montatura ovale di metallo due occhi vispi, che brillano, di chi ne ha viste tante ma è soddisfatta, due guance tonde e rosate completano un quadro di simpatia bonaria ma attenta.
Si uniscono con noi un cugino e una zia, sfollati dalle case visitate.
Come tutti hanno voglia di parlare, raccontare le sofferenze di Gaza, uscire dal recinto che li rende invisibili, nella speranza che una testimonianza straniera, non condannata a una costante detenzione, possa far evadere la loro voce.
Traspare sempre un'identità collettiva nelle loro parole: le distruzioni, i crimini subiti, le terre espropriate lungo i confini, i contadini uccisi mentre lavorano la propria terra, i pescatori bersagliati ai quali viene impedito di pescare, le speculazioni edilizie in cui gli israeliani, in un paradosso kafkiano, guadagnano sulla ricostruzione di ciò che distruggono, gli oltre 11 mila prigionieri politici, l'embargo, l'ingiustizia, la paura continua per ogni civile identificato come un nemico, l' incubo di essere palestinese nella frase che sento dire da tutti: “ci voglio distruggere, ci vogliono tutti morti”.
Chiedo alla mamma cosa è cambiato dal passato e come vede il futuro e risponde: “faremo la fine di Hiroshima, come in Giappone”.

61 ANNI DI BOMBARDAMENTI DA CIELO
da “La pulizia etnica della Palestina”
di Ilan Pappe
“Da Luglio [1948] in poi gli aerei furono usati in modo spietato nelle operazioni di pulizia etnica per costringere gli abitanti dei villaggi a un esodo di massa e colpirono indiscriminatamente chiunque non fosse in grado di ripararsi in tempo. [...]
Al-Hajj Abu Salim aveva 27 anni e una figlia adorata, quando il villaggio (Suffuriyya) fu preso. Sua moglie aspettava un altro figlio e lui ricorda la calda casa di famiglia con suo padre, uomo gentile e generoso, uno dei più ricchi contadini del villaggio. Per Abu Salim la Nakba iniziò con la notizia della resa di altri villaggi. “Quando la casa dei tuoi vicini è in fiamme incomincia a preoccuparti” è un noto detto arabo che esprime l'agitazione e la confusione degli abitanti dei villaggi nel mezzo della catastrofe.
Suffuriyya fu uno dei primi villaggi che le truppe israeliane bombardarono dal cielo. In luglio molti altri sarebbero stati terrorizzati in questo modo, ma in giugno era ancora evento raro. Le donne atterrite afferrarono i bambini e velocemente cercarono riparo nelle vecchie caverne lì intorno. Gli uomini prepararono i loro rozzi fucili per l'inevitabile attacco.[...] Il bombardamento aereo fu seguito dall'attacco di terra, non solo al villaggio ma anche alle caverne. “Le donne e i bambini furno subito trovati dagli ebrei e mia madre fu uccisa dai soldati”, raccontò a un quotidiano 53 anni dopo.”

Da allora questa cronaca non ha più avuto interruzioni e si ripete nelle dinamiche per quello che Poppe nel suo testo storico accurato dimostra: una pulizia etnica che la Comunità Internazionale continua a ignorare.

domenica 5 aprile 2009

UNA FLOTTA DI AQUILONI


di Marcello Sordo, gaza

30 marzo.

Oggi ho bigiato la mattina di lavoro al Pronto Soccorso di Al Awda Hospital.

L'amico Majed, dirigente dell'Unione dei Giovani Progressisti, mi aveva invitato alla loro manifestazione per il “Land Day”, conosciuta in arabo come “Youm Al-Ard”.

La “Giornata della Terra” è ricordata da tutti i palestinesi in Israele, nei Territori Occupati e in tutti i campi profughi disseminati in Medio Oriente.


Il 30 marzo 1976 ci fu uno sciopero generale nelle città arabe della Galilea, in risposta all'annuncio del Governo israeliano della confisca di migliaia di ettari di terra palestinese. La giornata di manifestazioni pacifiche si concluse con l'intervento di carri armati e costò la vita di sei palestinesi, il ferimento di altri 96 e l'arresto di oltre 300 manifestanti.

Le Autorità Israeliane confiscarono 5.500 ettari di terra e dichiararono tutti i villaggi e le città palestinesi come territori chiusi e soggetti a occupazione militare e coprifuoco. Tutte quelle terre sono oggi occupate da insediamenti israeliani illegali.

Dal 1967 Israele ha confiscato più di 750 mila acri di terra palestinese, la maggior parte della quale per fare spazio a nuove colonie e per costruire strade di accesso alle colonie stesse a solo uso esclusivo dei coloni ebrei, ulteriore fattore di esclusione e di Apartheid. Dal 1948 ben l' 85% delle terre appartenute a palestinesi sono state confiscate, molte delle quali portate via agli oltre 800 mila profughi che allora vennero cacciati.


Majed è in testa alla manifestazione in cordone con gli altri quadri, alcuni dei quali reduci dalle prigioni israeliane. Il corteo che segue è molto colorato anche se mostra una certa disciplina e ordine nella formazione. Due ali del corteo sono formate da colonne di ragazzi armati di scudi di carta, con i colori della bandiera e mossi da frange, alcuni con il disegno della chiave al centro, simbolo del ritorno alle proprie case per gli attuali oltre 4 milioni e mezzo di profughi; in testa un ragazzo con il viso dipinto porta uno scudo rosso, a simbolo del Fronte Popolare di Liberazione. Tutti hanno bande rosse annodate intorno alla fronte, chi al braccio, a esprimere un'attitudine guerriera e fiera, a ricordare una iconografia indiana, di chi lotta per la propria terra e autodeterminazione.

Abbiamo sfilato per il centro di Gaza, oltre l'ospedale Shifa che ha accolto il più alto numero di feriti durante l'ultimo attacco (1180 casi). Siamo passati sotto il Parlamento disintegrato, malgrado l'enorme mole della struttura collassata su se stessa. Sfugge il senso di bombardare il parlamento, improbabile rampa per qassam di latta, da parte di un paese che usa la retorica della democrazia per seminare guerre.

Abbiamo seguito il lungo Corso, accompagnato al centro da giardini fioriti e curati, ricco di alberi e piante, all'ombra dei quali i cittadini sono soliti riunirsi e spendere il proprio tempo libero. Ai lati la varietà dei negozi non fa pensare a una città sotto assedio e la quantità delle merci esposte invita a una più attenta analisi sull'impatto dell'embargo e sull'importanza dei tunnel.

Il Corso, che declina verso il mare, per la struttura e l'animosità ricorda le Ramblas spagnole, che non a caso derivano il proprio nome dall'arabo Raml, ossia “sabbia”, a indicare una strada che ricopre il letto di un fiume.

Passati oltre un grande manifesto con l'immagine dello storico Presidente Arafat, che stranisce per il potere consolidato di Hamas nella Striscia e la conseguente cacciata di Fatah, arriviamo davanti alla Stazione di Polizia di Saraja, rasa al suolo dagli F16 il 27 dicembre con dentro una massa di cadetti mentre venivano addestrati.

Il lungo Corso si chiama Omar Al Makhtar Street, in ricordo del valoroso partigiano, conosciuto anche come il Leone del Deserto, che tra il 1911 e il 1931 combatté contro l'occupazione italiana in Libia. Proseguirebbe verso il quartiere centrale di Saha, colorato suk di Gaza City che ospita un elegante Municipio, ma il corteo si ferma per essere caricato su dei pullman.

Ci si sposta verso la famigerata Linea Verde.


Attraversiamo Ash Shuja'ieh, un popoloso quartiere a est, nel traffico dell'ora di punta. Sempre più a est arriviamo alle ultime case intorno a un grande spiazzo.

Dopo una distesa di campi, resi impraticabili dai cecchini israeliani, c'è Israele, con i suoi alberi,da questo lato estirpati dai tanks.

Il precedente corteo si trasforma in una festa, ragazzi iniziano a correre in cerchio sventolando bandiere rosse, un pulmino, con gli amplificatori montati sul tetto, manda musica di lotta e di patria, i ragazzi con gli scudi di carta prendono posizione, studiano il vento, iniziano a tendere corde dagli scudi che, vibranti, prendono il volo.

Su, nel cielo, danzano le frange, i colori della Palestina, sopra ogni altro aquilone quello rosso, come a mandare un segno di speranza e di estrema libertà, oltre le rappresentazioni nazionali per un bene comune oltre ogni frontiera, oltre ogni razzismo.


Al ritorno vengo assalito dai ragazzi del pullman, la festa prosegue fino alla loro sede, mi chiedo la mail, il telefono, ci facciamo foto abbracciati, mi chiedono cosa si dice in Europa del dramma palestinese, dei crimini contro loro commessi. Domande a cui è sempre difficile rispondere. La follia di questo totale isolamento dal resto del Mondo li mantiene in una perenne tensione verso l'esterno, una vitale tensione frustrata da anni.


Con Majed, suo fratello e altri due amici ci spostiamo verso la spiaggia per andare a mangiare. Con loro Basel, è alto ed elegante, un franco sorriso rivela una persona riflessiva, è tornato da sei mesi, dopo due anni di prigionia in Israele. La giornata è già stata piena di avvenimenti, così ci promettiamo un prossimo appuntamento, in cui mi parlerà della sua esperienza, dalle prigioni israeliane che accolgono oltre 11 mila prigionieri politici.


Sulla spiaggia ci accomodiamo sopra un barcone arenato sulla sabbia fine, un vecchio peschereccio. Mangiamo riso con pollo alle mandorle, una delizia. Un normale pomeriggio al sole di primavera di ragazzi che vivono affacciati sul Mediterraneo.

Ma dal mare arrivano i colpi sordi, sparati contro i pescatori che non possono superare le tre miglia.


Oggi il senso di accerchiamento è completo.


Assediamo l'assedio.




giovedì 2 aprile 2009

LE FOTO DI "TIRO AL PICCIONE"

Abbiamo ricevuto da Marcello le foto che accompagnano la lettura del post TIRO AL PICCIONE. Le abbiamo organizzate qui: http://picasaweb.google.com/urgenzasanitariagaza/IlTiroAlPiccione#
Buona visione

sabato 28 marzo 2009

IL TIRO AL PICCIONE



di Marcello Sordo, Gaza
foto su http://picasaweb.google.com/urgenzasanitariagaza/ILTIROALPICCIONE#

Attraversiamo le due carreggiate di Salah El Din Road, io e il dottor Marwan.
Più ci spostiamo a est e più si fanno evidenti i segni della distruzione. Ci lasciamo alle spalle alcune officine disintegrate, verso abitazioni civili sempre più colpite dai proiettili e dagli incendi. Iniziamo a salire per un pendio, circondato da frutteti interrotti da vaste distese di fango, a vista d'occhio i palazzi dai quattro ai sei, sette piani, sono squartati da grosse voragini, anneriti dalle fiamme, nulla che ci circonda apparteneva ad avamposti militari palestinesi.
Marwan mi racconta delle passeggiate che tra questi frutteti faceva quando era fidanzato, con un tono romantico e tenero. Giriamo per un bivio e compare la villa sventrata che lo addolora, ciò che rimane della residenza che fu di sua moglie e dei genitori di lei.
Entriamo, da ogni muro e soffitto ci sono squarci che rivelano i campi circostanti, l'azzurro del cielo. Marwan è premuroso e mi avvisa di fare attenzione mentre superiamo calcinacci e attraversiamo precarie passerelle sospese sulle scale mozzate. In certi punti le maglie del cemento armato sono nude e sole a mantenere insieme pezzi di muro. Nel salire al piano superiore mi indica dove era solito appartarsi con Sara, dove ci fu il primo bacio. Sopra un enorme squarcio, che ha eliminato per intero una parete, mette a nudo i resti di quello che doveva essere un vasto salotto, parte di una camera da letto, tendaggi ancora penzolanti conservano una antica eleganza, tra mobili traforati dai proiettili e corredi persi nella polvere. Un libro di microbiologia sgualcito, aperto a terra come in un atto di resa, mi guida verso una veranda dove trovo uno studiolo, un ammasso di libri e quaderni sono stati abbattuti sulla scrivania dalla libreria, crivellati di colpi. Ci si muove verso le camere appartenute all'infanzia, superando un computer arrostito, dove bambole di pezza han perso il proprio colore sgargiante, buttate tra libri di grammatica araba e inglese.
Tornati al salone l'espressione di Marwan è sconsolata, allarga le braccia, si domanda perché, non trova un senso a tanta distruzione, mi indica fuori l'altro lato della collina, dove erano appostati i soldati israeliani. La casa era ormai vuota, nessun miliziano nelle vicinanze, eppure i soldati hanno speso ore a mitragliare la casa, che non arrecava alcuna minaccia. Tutta una vita, il senso di una famiglia, ogni cosa andata perduta. Gli chiedo se gli sono rimaste delle foto dell'abitazione, ma niente, anche i ricordi si sono svaniti.

Ci spostiamo a qualche centinaio di metri, siamo solo agli inizi del viaggio, tutte le case degli zii della moglie sono andate distrutte, e non solo.
Ci addentriamo in un villaggio dove, fino a dicembre, una zona povera doveva convivere con una parte residenziale, ora non si riesce a distinguere più nulla.
Ci soffermiamo in un centro clinico della Mezza Luna Rossa, con un parco di ambulanze all'esterno che durante l'aggressione erano attive con l'ospedale Al Awda. Scambiamo due chiacchiere con i militi, mi raccontano di essere stati un interessante bersaglio per i fucili israeliani. Guardo in alto e non c'è più un vetro integro, i muri del primo piano son tutti traforati dalle pallottole. Riconosco il posto, filmato il giorno prima dall'emittente Al Jazeera in un servizio sugli attacchi subiti dai soccorritori e dagli ospedali.
Lungo il villaggio veniamo accolti da un nuvolo di bambini, sono chiassosi, percepisco un approccio troppo invasivo, mi arriva una patta sulla schiena non troppo amichevole; nei loro visi sorridenti intravedo una smorfia, il dolore che ha attraversato le loro giovani menti deve essere qualcosa di irreparabile, i lutti e i traumi che devono avere subito richiederebbero strategie e cure spropositate, come spropositati sono stati gli armamenti che gli sono piovuti addosso. Marwan manifesta preoccupazione per i disordini post-traumatici vissuti da questi bambini.

Scolliniamo e l'oltre appare lunare.
Intorno focacce di cemento armato, sterpaglie e terra; disseminate sembrano avere subito il passaggio di un pachiderma. Una casa, in cui un muro portante deve aver retto, è collassata sui lati, mantenendo una colonna nel centro, ora assume la forma grottesca ti un enorme tipee indiano in cemento, sotto un falò brucia, probabile unico pericoloso riparo rimasto, o folle e orgogliosa permanenza dentro a una proprietà perduta, visto che, mediamente, tutte le famiglie sfollate trovano riparo presso parenti, Governo o UNRWA.
A sinistra su un promontorio, circondato dal poco verde rimasto e dai reticolati, un grande compound dell'URWA pieno di viveri, a destra, oltre le macerie di una casa disintegrata, una vasta distesa di tende su un polveroso spazio, una volta occupato dal verde degli alberi.
Marwan mi indica quest'ultima casa. Poi si rivolge al promontorio alle spalle, dove i soldati si erano appostati. Con i megafoni avevano intimato alla famiglia di uscire, rispettivamente la zia e tre cugine di Sara. Uscite mani in alto, con una sola bandiera bianca, sono state abbattute, a sangue freddo. Due bambine, di sette e cinque anni, sono morte sul colpo, mentre la mamma, Souad, e la sorellina di quattro anni sono ora ricoverate in Belgio, in pessime condizioni. Osservo i pochi metri che separavano l'arbusto dietro cui stavano i soldati e la casa, uno spazio in cui si può riconoscere il colore dell'iride e percepire la luce negli occhi.
Mi perdo nello spazio infinito davanti a noi, a est, la strada sterrata declina verso le ultime baracche di contadini, uomini e ragazzi stanno tornando dai campi, chi a piedi, chi trainato su carretti dai muli. Una grande distesa verde e gialla raggiunge l'orizzonte dove alti svettano gli alberi, laggiù è Israele, a un tiro di schioppo; fino a pochi anni fa qua viveva una rigogliosa foresta, maciullata da giganteschi buldozer. Ci troviamo su una linea invisibile e invalicabile, benché manchino un paio di chilometri al confine, tutta la terra palestinese davanti è abbandonata, chiunque vi entri verrà abbattuto dalle guardie di frontiera laggiù invisibili. Si intravede minuscolo un sontuoso santuario, intorno c'era un cimitero che è stato completamente bombardato. Marwan mi dice che di notte, nella posizione in cui siamo, diverremmo i bersagli dei cecchini, perciò i contadini fanno presto a rientrare, sanno che qui non si fanno sconti.

L'International Solidariety Movement si sta adoperando per proteggere i contadini che lavorano la terra in prossimità della “Linea Verde”.
Dal cessate il fuoco sono stati colpiti i rispettivi lavoratori:
Il 18 gennaio Abu Rajileh (24) del villaggio di Khoza’a, colpito a morte mentre lavorava il suo appezzamento a 400 metri dalla linea verde.
Il 20 gennaio al-Astal (42) di Al Qarara (vicino Khan Younis), colpito al piede destro.
Il 27 gennaio Anwar al Buraim è stato colpito al collo a morte.
Il 18 febbraio Mohammad Il Ibrahim (20) colpito alle gambe, mentre caricava prezzemolo sul suo carro, a 550 metri dalla linea verde. I contadini stavano lavorando insieme agli attivisti internazionali da due ore, a vista rispetto alle guardie israeliane, e stavano abbandonando la zona quando senza motivo sono stati bersagliati.
(dati forniti da
http://palsolidarity.org/2009/03/5482HYPERLINK "http://palsolidarity.org/2009/03/5482" )

All'imbrunire il sole scompare tra le macerie, intorno i primi fuochi dei profughi.
Volgiamo a ovest quando ci imbattiamo, dopo pochi metri, con due signori distinti, di un'austerità tipica delle province rurali nostre, personaggi che si possono facilmente incontrare nelle nostre campagne, chessò, in Toscana o in Emilia.
Marwan mi presenta uno zio di Sara, Mohamad Abu Fadi, che ci porta a vedere i resti della sua casa.
A poche centinaia di metri dal massacro raccontato, ci troviamo davanti alla sua villa
collassata su se stessa, entriamo dentro a quel poco che rimane, mentre Mohamad racconta, con il viso paonazzo dal dolore, gli occhi lucidi, i giorni circondati dai
tank, ci indica le case intorno con le feritoie sui muri create dai cecchini. Aveva un vasto giardino con tutti i frutti della macchia mediterranea, davanti una vasta coltura di limoni e aranci, tutto distrutto e sradicato dai bulldozer, come la sua stessa casa, da poco costruita. Marwan mi racconta come, solo un paio di giorni prima dell'occupazione, fosse tutta la famiglia riunita nel patio scomparso, a godersi l'aria dei campi.
Mohamad racconta di quanta cura avesse per la sua casa, di quando smontò i serramenti, nel timore che le esplosioni rompessero i vetri; della casa gli sono rimasti solo quelli. Dice che il Governo gli risarcirà la perdita ma lui ha timore di ricostruire, permanentemente minacciato, sotto scacco, con l'incubo che presto Israele allargherà ulteriormente i suoi confini, fino ad arrivare alla sua casa, annettendosi ogni cosa, uccidendo ed espellendo l'umanità che vi risiede. Guardo ancora intorno la terra nuda e il fango, dove due mesi prima viveva un giardino e trovo incomprensibile l'accanimento contro le colture.

Nel buoi facciamo ritorno verso Jabalia, continua la conta di Marwan, di un'altra cugina della moglie uccisa da una fucilata a soli venticinque anni, rammenta con dolore quanto era bella e ancora di un altro cugino a cui hanno sparato e di un altro ancora, a soli diciassette anni, abbattuto perché un combattente, l'unico della famiglia.
In un grande slargo noto un grande tendone, dentro è una distesa di colorati tappeti, e chiedo spiegazione. In quello spazio a dicembre c'era una moschea, ora ai fedeli è rimasto un riparo di plastica .

L'ultima visita è di piacere, dal nonno di Marwan, lo descrive forte e vitale nei suoi settant'anni, residente originario di Jabalia, a dispetto dei 150 mila profughi che ora la abitano. I residenti originari sono solo duemila, di quando quest'area, a nord di Gaza City, era un giardino fiorito.
Appena superato Salah El Din Road mi indica una vecchia villa circondata da mura che ricordano vecchie tenute signorili tipiche del nostro sud. Era la residenza del nonno, abbandonata a gennaio, prima che diverse bombe piovessero da un F16.
Il nonno mi accoglie con un bel sorriso, i suoi capelli bianchi brillano sotto la luna, la fronte spaziosa e la pelle abbronzata mi ricordano il mio nonno calabrese Eugenio, a volte nei tratti sembriamo tutti usciti dallo stesso pentolone che si chiama Mediterraneo.
Nel patio è buoi, se non per una flebile torcia, i black out sono la norma, uno dei cari prezzi dell'assedio, ma questo non ci nega di bere un caldo tè in buona compagnia.
Sopra un manto di stelle ci sovrasta e per la prima volta riconosco la costellazione del Sagittario.

venerdì 27 marzo 2009

IL DOTT. MARWAN ASALYA

di Marcello Sordo, Gaza

Mi sono trattenuto a chiacchierare con il dott. Marwan Asalya, un giovane chirurgo che, qui all'ospedale, appare una promessa nelle tecniche di chirurgia endoscopica. E' massiccio e affabile, parla un inglese fluente, ha vissuto in diversi paesi, tra cui Arabia Saudita, Inghilterra ed Egitto.
Trattiene sul viso la freschezza di un adolescente, ride e scherza, gioca con i colleghi
intonando il dialetto beduino, esprime un umore cordiale e spiritoso tipico di tanta gente qua incontrata.
Mi invita a pranzo in una casa elegante di Jabalia. Da tre anni è tornato a Gaza per sposare Sara, la giovane moglie alla quale era promesso. E' alta e luminosa, fiera della propria cucina ha preparato un'ottima pizza, insieme a una gustosissima orata, frutto di una pericolosa pesca nel mare assediato. Hanno un bimbo di dieci mesi che gattona per il salotto, sul prezioso tappeto è l'immagine dell'infanzia beata nel tepore borghese.
La normalità della vita, nei rapporti, sulla strada che ogni giorno incontro mi meraviglia. Pare che il carattere solare intrinseco a questo popolo, che si affaccia sul Mediterraneo, sia inalienabile e mi ricorda, scusate l'immagine, una vecchia foto degli inizi del '900, in cui un operaio anarchico se la ride mentre le guardie lo portano via.
Mi accompagna sul tetto e inizia il racconto.

Alcuni giorni prima mi aveva disegnato una mappa dell'area. La via sottostante è trafficata, duecento metri a est si congiunge con Salah El Din Road, una delle principali arterie che uniscono il nord con il sud della Striscia.
Oltre il Corso le case si diradano verso la campagna, fino a Israele. All'orizzonte i promontori, dove le truppe israeliane a gennaio presero posizione colpendo, con cecchini e carri armati, tutto ciò che si muoveva e, quando nulla si muoveva, colpendo le case di tutta l'area senza tregua, finché si attestarono, di distruzione in distruzione, a un centinaio di metri dalla casa di Marwan. Il chirurgo era in ospedale assorbito da un lavoro frenetico tra sala operatoria e pronto soccorso quando seppe che la sua famiglia e, nel palazzo accanto, i suoi genitori, erano sotto il tiro impietoso.
Nell'arco di un paio di giorni si sono susseguite varie carneficine tutto intorno.
In un momento di tregua apparente un po' di gente si era accalcata davanti a un ristorante sulla via, esausti dalla fame, quando i cecchini hanno iniziato la loro missione uccidendone cinque, poco più in là due bambine sono state freddate, una centrata alla testa; sull'asfalto sono ancora visibili i colpi di cannone e un palazzo di otto piani è ora pericolante per le colonne portanti disintegrate. Il peggio è arrivato quando Marwan ha ricevuto la notizia di una donna centrata, mentre era riparata in casa, in pieno dal colpo di un carro armato sulla sua via, affianco a una banca, dove risiede. Momenti febbrili di disperazione e impotenza, con tutte le comunicazioni isolate. Saprà più tardi che era la vicina del palazzo che si affaccia sul suo giardino, passeranno giorni a raccogliere i minuscoli pezzi rimasti intorno. In quei giorni, passati strisciando per casa per evitare la solerzia dei cecchini, il padre ha avuto il coraggio di distribuire acqua al vicinato, dato che erano gli unici a possedere una capiente cisterna e potenti generatori per pomparla. Riusciranno, giorni dopo, a evacuare la zona per l'intervento di un amico delle Nazioni Unite al quale, con una macchina contrassegnata, gli verrà concesso di approssimarsi alla zona.
La famiglia intera dovette camminare per un centinaio di metri verso il mezzo, protetta dal tiro dei fucili solo da una bandiera bianca, con la consapevolezza di come il segnale di resa contasse poco, visto che giorni prima una stessa bandiera si era impregnata del sangue di alcuni parenti di Sara.
Dall'alto guardo intorno la devastazione, è il primo giorno di tepore che rivela la primavera, laggiù un minareto conserva la sua vetta per un miracolo o un gioco di ingegneria, squarciato a metà dell'altezza da parte a parte, l'azzurro che lo attraversa diventa un ferita nel cielo.

Dopo la panoramica dalla graziosa casa è il momento di uscire, mi porta verso est, la linea del fronte, se mai si può chiamare “guerra” la mattanza di civili, lontani da qualsiasi formazione combattente palestinese. Mi accompagna nel luogo dove zii e cugini della moglie sono stati freddati e dove hanno distrutto quattro case dei parenti di lei, compresa la villa dei genitori.

Ma, prima di proseguire nel riportare gli avvenimenti dello scorso gennaio, avrei piacere di condividere la lettura che in questi giorni mi ha fatto comprendere molto della cosiddetta “questione palestinese”.
Lo storico ebreo Ilan Pappe, in “La pulizia etnica della Palestina”, così racconta il massacro del 9 aprile 1948 a Deir Yassin, villaggio su una collina a ovest di Gerusalemme, che aveva stipulato un patto di non aggressione con i paramilitari sionisti dell'Haganà.
“Come irruppero nel villaggio, i soldati ebrei crivellarono le case con le mitragliatrici, uccidendo molti abitanti. Le persone ancora in vita furono radunate in un posto e ammazzate a sangue freddo, i loro corpi seviziati, mentre molte donne vennero violentate e poi uccise. [...] (Gli ebrei crivellarono) un gruppo di bambini allineati contro un muro [...] Poiché le truppe ebraiche consideravano ogni villaggio palestinese una base militare nemica, la distinzione tra massacrare gli abitanti e ucciderli in “battaglia” era di scarsa importanza, Bisogna solo dire che tra le persone massacrate vi erano trenta neonati; si capisce così che il calcolo quantitativo - che gli israeliani hanno ripetuto, nell'aprile 2002, nel massacro di Jenin – è privo di senso.”
Albert Einstein, insieme a ventisette importanti personaggi ebrei di New York, condannò sul New York Times il massacro di Deir Yassin in una lettera pubblicata il 4 dicembre 1948, osservando che “bande di terroristi avevano attaccato questo pacifico villaggio, che non era un obiettivo militare nella guerra, e ucciso la maggior parte dei suoi abitanti – 240 tra uomini, donne e bambini – e tenuti pochi di essi in vita per mostrarli come prigionieri nelle strade di Gerusalemme. La maggioranza della comunità ebraica fu inorridita per l'evento, e l'Agenzia ebraica inviò un telegramma di scuse a re Abdullah di Transgiordania. Ma i terroristi, lontani dal provare pentimento per le loro azioni, furono orgogliosi del massacro, ne diedero ampiamente notizia e invitarono tutti i corrispondenti nel paese a vedere i mucchi di cadaveri e la distruzione completa di Deir Yassin”

In sessantun anni il modo di operare dell'esercito israeliano ha mantenuto una coerenza sconvolgente, conseguendo il costante obiettivo di portare via più terra possibile ai nativi palestinesi, uccidendone il più alto numero e provocando terrore, utilizzando il metodo della rappresaglia, di triste italiana memoria, e confondendo i civili con la resistenza. Ha sempre messo in campo una forza militare straordinariamente superiore per poi giocare coi Media al ruolo di vittima assediata.
E' di ieri la cronaca delle magliette sfoggiate per le strade di Israele in cui si inneggia ad ammazzare l'arabo, con disegni di cannocchiali che puntano bambini e donne in cinta velate. Non è molto dissimile dallo sfoggio di cadaveri che, a Deir Yassin, venne fatto ai corrispondenti di tutto il mondo, un mondo che da sessantun anni ignora partecipe.

Dalla prigione a cielo aperto di Gaza

Assediamo l'assedio.

lunedì 23 marzo 2009

SGUARDI DI RESISTENZA DESIDEROSI DI PACE

di Marcello Sordo, Gaza

C'è una linea gialla che improvvisamente diventa rossa dentro il recinto di Gaza.

Ieri l'ho vista tra i video conservati dall'ospedale e negli occhi di Diaa Khalid El Halabi. Coordinatore delle ambulanze e pronti soccorsi della Striscia per il Ministero, portavoce dell'Emergency Medical Committee del UHWC e, infine, infermiere nella Sala Operatoria di Al Awda, quando gli impegni di funzionario non lo occupano.

E' incredibile come qua i confini tra le cariche dirigenti e i lavoratori si assottiglino e la struttura gerarchica assuma un valore puramente funzionale, che crea un'atmosfera di cordialità e collaborazione, di spirito comune nel lavoro svolto. Già ho parlato del Direttore Sanitario che dismette le proprie funzioni primarie per calarsi in Sala Operatoria, mantiene un rapporto caldo con i pazienti e si adopera con gli infermieri a mobilizzare i malati sulle barelle. Vallo a spiegare a tanti dei nostri amministrativi che si accalcano alle scalate delle scrivanie, con lo scopo di lavorare sempre meno e di sentirsi così investiti di un maggiore prestigio sociale.

Tutto sommato lavoro pur sempre in un Ospedale facente parte del UHWC, una ONG dichiaratamente legata al Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, Partito di ispirazione marxista.

E' fin buffo, di questi tempi, girare per i corridoi arredati con i manifesti in memoria di George Habash, fondatore e guerrigliero del Fronte; testimone, quando era un giovane medico, del massacro che colpì la sua città natale, Lydd, nel luglio del 1948, .

Fu la prima città a essere bombardata dalla neonata aviazione israeliana.

La memoria orale di chi è scampato rammenta un'orgia di uccisioni e saccheggi: 426 uomini, donne e bambini vennero uccisi, circa 50 mila persone, rastrellate casa per casa e spogliate di ogni avere. Furono cacciate dalla città verso la Cisgiordania. Giornalisti americani presenti testimoniarono che ogni cosa i militari si lasciavano alle spalle era morta. Kenneth Bilby, da giornalista embedded ante litteram, riferì di aver visto “I corpi di arabi, uomini, donne e bambini sparsi in giro a seguito dell'attacco spietatamente brillante”. Il “London Economist” descrisse le scene strazianti, di quando gli abitanti furono costretti a iniziare la marcia, dopo che i loro averi erano stati saccheggiati, i familiari uccisi, le case distrutte: “I rifugiati arabi furono sistematicamente depredati dei loro effetti personali prima di essere avviati in marcia verso la frontiera. Gli oggetti di casa, le provviste, il vestiario, tutto doveva essere lasciato alle spalle”. La popolazione fu costretta a marciare in maniera disumana, senza cibo né acqua, e molti morirono di sete e di fame lungo la via.

Lydd, famosa come “la città delle moschee” tra Giaffa e Gerusalemme, ora è la nuova città ebraica Lod, assorbita dalla cintura urbana di Tel Aviv, che accoglie la parte più povera della metropoli. All'epoca, secondo il piano di spartizione delle Nazioni Unite, redatto nella Risoluzione 181, sarebbe dovuta rientrare dentro il territorio arabo.

Lo storico israeliano Ilan Pappe, oggi espatriato in Gran Bretagna per protesta contro i crimini del proprio Stato, descrive con rigore quei giorni tremendi in “La pulizia etnica della Palestina”, beneficiando degli studi fatti sui diari personali di Ben Gurion, ritenuto il padre fondatore di Israele, e negli archivi dell'esercito israeliano.

Lungo le trecento pagine che narrano l'esodo di centinaia di migliaia di palestinesi nell'anno della Nakba, 1948, lo studioso israeliano spesso si domanda, come in una testimonianza disperata e colpevole, cosa, a soli tre anni dopo l'Olocausto, passasse per la mente degli ebrei che vedevano marciare verso il nulla quelle genti sventurate.

Ma è lo sguardo di Diaa Khalid che mi richiama, fermo e serio, dell'uomo dalla barba ispida e la pelle spessa,di chi alle parole è solito sostituire la fatica del lavoro, mi segue mentre parlo con un medico dei danni della guerra, pare aspettare un momento propizio.

Il momento arriva con l'apertura di un video sullo schermo del computer. Appare diventare solerte ma si trattiene, un carattere intrinsecamente composto e orgoglioso ma che vive in un dramma duro da contenere. Si scosta la divisa verde della Sala Operatoria dal collo e mette a nudo una brutta cicatrice sulla spalla.

Il video trasmette una scena notturna, soccorritori vestiti di bianco e d'arancio caricano un ferito sull'ambulanza, riconosco il mio amico, ritornano nell'oscurità cercando qualcosa, le torce si muovono nervose, puntano nel buio, un cadavere, iniziano gli urli, “via, via” sembrano dire in arabo. Veloci tornano all'ambulanza come di fronte al demonio. Allora iniziano gli spari. Uno del gruppo cade. Gli chiedo se è lui. No. Si rialza e raggiunge il mezzo con i lampeggianti rossi e rassicuranti. Lui è rimasto indietro, confuso tra la polvere che si è sollevata, dove un elicottero l'ha colpito.

Era il marzo del 2005 quando fu colpito da schegge al torace, alla testa e alle gambe.

“Twice, twice” mi dice, e racconta del 2007. A Bethanon, vicino al confine con Erez. Vengono allertati al telefono, c'è un gruppo di bambini da evacuare. Arrivati sul posto un bambino è già a terra colpito, ha otto anni. E' vivo. Gli altri sono al riparo. Il tempo di scendere dall'ambulanza e uno sparo lo raggiunge alla gamba, tuttavia riesce a raccogliere i bambini e a caricarli sul mezzo.

Il cecchino era appostato su una casa, l'ha visto negli occhi, ha iniziato a urlare “ambulance, ambulance”, l'altro rispondeva in ebraico. E' un mistero il perché quel militare sparasse a bambini e soccorritori, come è un mistero perché alla fine li abbia risparmiati.

E' sicuro che Diaa Khalid nella sua normalità è un eroe, per quanto ne voglia Bertolt Brecht, come è sicuro che lui ne farebbe a meno di esserlo, perciò la disperazione velata negli occhi e il bisogno di raccontare qualcosa di troppo più grande che ogni giorno gli si può abbattere contro.

Segue un altro video di oltre un'ora, tutto si svolge tra il Pronto Soccorso di Al Awda e le ambulanze sulle strade distrutte, le case sventrate, le donne, i bambini e gli uomini terrorizzati che invocano Dio, unico richiamo estremo abbandonati dal mondo. Davanti all'immagine di un uomo piangente e ricurvo, ricoperto di calcinacci ieri ho scritto: “Togliete tutto a un popolo e gli rimarrà solo un Dio da invocare, allora combatterà fino alla morte”. E' evidente che il terrore a cui questo popolo è sottoposto procura solo l'effetto di una disperata determinazione a resistere.

Intanto che le scene di soccorritori in affanno sui diversi scenari si susseguono. Diaa Khalid inizia a indicarmi una lista degli attori che compaiono.

Mi indica Ibrahim Shabat, l'autista d'ambulanza a cui hanno sparato alle gambe nel 2004, recidendogli l'arteria femorale.

Arafa Abed Eldaiem, paramedico, morto dentro l'ambulanza per un colpo di un carro armato nel gennaio 2009, era insieme all'autista Khalid Abo Saada, che ha subito un trauma cranico, Ala'a Sarhan, paramedico, rimasto disabile. E due pazienti: uno deceduto per una scheggia nel cervello e l'altro che ha perso una gamba. . L'ambulanza sventrata è davanti al piazzale dell'ospedale, a ricordo di un crimine; la foto compare sul blog. Un'altra ambulanza, persa di recente, non esiste più, completamente distrutta.

Questa è una parte delle testimonianze raccolte, fin ora, nella sola Al Awda, mentre il primo report, dopo il 18 gennaio, dell'Organizzazione Mondiale della Sanità rivela che durante i 22 giorni di terrore 16 operatori sanitari sono stati uccisi, 25 feriti gravemente mentre erano in servizio, 15 ospedali e 41 poliambulatori sono stati danneggiati, 29 ambulanze sono state danneggiate o distrutte.

Nello sguardo di Diaa Khalid El Halabi ho immaginato, per un attimo, di riconoscere quello di George Habash, quando giovane medico vedeva massacrare la sua gente.


sabato 21 marzo 2009

I PRIMI QUATTORDICI GIORNI

di Marcello Sordo, Gaza

Credo conclusa la prima fase di permanenza a Gaza. Già mi sentivo a casa, affacciato sul Mediterraneo, dal principio, ma ora mi sento perfettamente inserito nel contesto sociale e umano.

Questi primi quattordici giorni sono stati scanditi dal lavoro al Pronto Soccorso di Al Awda, iniziato a due giorni dal mio arrivo, dalle otto alle quattordici, dai molti incontri istituzionali, con varie agenzie delle Nazioni Unite, l'Organizzazione Mondiale della Salute, il Municipio, Ministeri, Associazioni varie, Centri Culturali, Ambulatori, Medici, ONG e tutto ciò che potesse essere utile per avviare un intervento di ordine sanitario da parte dell'Associazione.

E' stato spesso utile accompagnare la delegazione medica, con la quale ero arrivato, in questi incontri e lo scambio di idee e di differenti punti di vista professionali, che hanno sviluppato tre differenti percorsi: di salute mentale sui disordini da stress post bellico, di Salute Pubblica e Medicina di Base e, infine, di formazione in ambito ospedaliero, di cui personalmente mi sto occupando.

Per il resto era un rincorrere connessioni internet in giro per i dedali sterminati di Gaza City (un' impresa imparare a orientarsi senza ausilio di cartine, che qua non esistono) per mantenere la rete con i compagni a Genova, visto che le comunicazioni sono state danneggiate pesantemente dai bombardamenti, in particolare nell'area nord di Jabalya, dove risiedo all'interno dell'ospedale.

Spesso mi sono anche trattenuto quassù in ospedale, con medici e colleghi, per non affrontare il lungo viaggio, mezz'ora di taxi, che mi separa da Gaza City, rintanato nell'estrema periferia, sull'alta collina a ridosso del poverissimo Campo Profughi di Jabalya.

L'ospedale non ha più feriti della guerra, essendo specializzato in chirurgia elettiva, ginecologia e neonatologia e, da quando sono arrivato, ho solo visto un caso di un bambino di tre anni, Mousa Suleman, con un'ustione di primo grado a un piede da fosforo bianco avvenuta due giorni prima, mentre camminava in un campo. A trentotto giorni dalla fine dell'aggressione il fosforo brucia ancora sotto la terra e rappresenta un pericolo.

Ora la connessione a nord di Gaza è stata ripristinata e scrivo dagli uffici dell'ospedale, da cui godo una vista incantevole su tutta la città sterminata. Laggiù, a nord ovest, un brulichio di luci rivela l'opulenza e l'energia priva di parsimonia di Israele e il pericolo. Alcuni giorni fa, da queste finestre, un collega mi informava dell'esistenza di una zona “gialla” mortale in territorio palestinese, profonda due chilometri lungo il confine,, dove l'esercito israeliano ha raso al suolo ogni casa e distrutto ogni coltura durante l'invasione e dove i cecchini sparano a vista a chiunque la penetri. Allora mi ricorda della notizia di qualche settimana fa di una delegazione governativa francese che, forse imprudente, era diventata bersaglio in quella striscia di terra. Tra muri, colonie e poligoni di tiro il furto di terre palestinese rimane lo sport nazionale di parte sionista.

Da domani inizierò, con più calma, a dedicarmi a un aspetto più sociale e umano di testimonianza, per capire cosa abbiano rappresentato gli orribili ventidue giorni di distruzione e morte per bambini, donne e uomini di un paese straordinario che si chiama Palestina.

martedì 17 marzo 2009

ALCUNI DATI SIGNIFICATIVI


I dati che state per leggere sono stati raccolti dall’Autorita’ Nazionale Palestinese, da agenzie delle Nazioni Unite, dalla Commissione Europea, dalla Banca Mondiale e altre istituzioni. Sono meri numeri, difficili da certificare. C’e’ chi sostiene siano sottostimati, c’e’ chi li considera invece i piu’ attendibili, visti gli organismi coinvolti.
Forse sono un po’ troppo di parte, ma potrebbero aiutare comunque a formarsi un’opinione.

In 22 giorni di attacco ci sono stati 1314 morti, di cui 417 bambini e 108 donne. Piu’ di 5380 feriti, inclusi 1872 bambini e circa 800 donne.

Piu’ di 100000 persone sono state sfollate e piu’ di 15000 abitazioni sono state rase al suolo o danneggiate.

Molte infrastrutture sono state danneggiate: che fossero gestite dai comuni, dallo stato o delle Nazioni Unite non ha fatto alcuna differenza.

Sono stati uccisi in servizio 16 sanitari e feriti 25. 5 ospedali, 41 poliambulatori e 29 ambulanze non esistono piu’.

164 studenti e 12 insegnanti uccisi. 454 studenti e 5 insegnanti feriti. 180 scuole su 407, tra pubbliche e private, sono state comunque danneggiate dal conflitto.
8 scuole pubbliche e 2 private sono state distrutte.
156 scuole pubbliche e 12 private seriamente danneggiate.
5 asili totalmente distrutti e 60 parzialmente danneggiati
7 tra universita’ e college sono stati colpiti, con 6 edifici rasi al suolo e 16 parzialmente danneggiati.

14 le moschee che non esistono piu’, 38 quelle danneggiate oltre a 2 chese e un cimitero.

lunedì 16 marzo 2009

Rachel Corrie

I’m here for other children.
I’m here because I care.
I’m here because children everywhere are suffering and because forty thousand people die each day from hunger.
I’m here because those people are mostly children.
We have got to understand that the poor are all around us and we are ignoring them.
We have got to understand that these deaths are preventable.
We have got to understand that people in third world countries think and care and smile and cry just like us.

We have got to understand that they dream our dreams and we dream theirs.
We have got to understand that they are us. We are them.
My dream is to stop hunger by the year 2000.
My dream is to give the poor a chance.
My dream is to save the 40,000 people who die each day.
My dream can and will come true if we all look into the future and see the light that shines there.
If we ignore hunger, that light will go out.
If we all help and work together, it will grow and burn free with the potential of tomorrow.


Fifth Grade Press Conference on World Hunger

By Rachel Corrie, aged 10 — 1990



di Marcello Sordo, Gaza

ll 16 marzo 2003 veniva assassinata Rachel Corrie all'età di 23 anni.


Era un'attivista dell'International Solidarity Movement (ISM), movimento pacifista che coraggiosamente svolge azioni di interposizione tra l'esercito israeliano e la popolazione palestinese.

Le loro attività sono molteplici per quanto sono numerose le vessazioni subite in Palestina: demolizioni illegali di case, attacchi militari e paramilitari contro contadini e pescatori, blocchi ai check point per feriti e partorienti, distruzione di uliveti e altre colture. Sono solo alcuni esempi delle condizioni di Aphartaid e di pulizia etnica procurate da Israele.

Rachel, mentre cercava di impedire la demolizione della casa di un farmacista, padre di cinque figli, è stata deliberatamente investita da un bulldozer a Rafah, a sud della Striscia di Gaza.

Domani alle h.16,30 si svolgerà la commemorazione della sua morte nella cittadina ai confini dell'Egitto, per ricordare il suo atto coraggioso e la sensibilità che la distingueva, rimasta impressa nei suoi numerosi scritti che ci ha lasciato.

Alcuni giorni fa ho avuto la fortuna di conoscere i genitori, persone squisite e intense quanto determinate a continuare l'impegno della figlia, che si sono recate nuovamente a Gaza, insieme alla delegazione Code Pink, per rompere l'assedio.

Intanto in Cisgiordania si vivono ore di apprensione per un altro militante del ISM, colpito da un lacrimogeno ad alta velocità (Rutger rifle) alla testa, ora in coma in una terapia intensiva di Tel Aviv. Tristan Anderson, di 37 anni, è stato colpito mentre dimostrava contro l'occupazione di terre palestinesi da parte degli israeliani, nel villaggio di Ni'lin. Un residente palestinese di Ni'lin è stato pure ferito alle gambe da armi da fuoco. In questo villaggio, nel 2008, sono stati uccisi quattro palestinesi, tra i dieci e i vent'anni di età, da armi da fuoco e rutger rifle.

Mentre si susseguono i summit internazionali, Gaza continua a essere un carcere a cielo aperto e la Cisgiordania pian piano scompare sotto la continua espansione delle colonie israeliane.

La Nakba, iniziata nel 1948, non ha fine.

Assediamo l'assedio.

http://rachelcorriefoundation.org/site/

domenica 15 marzo 2009

Le cliniche mobili

Le cliniche mobili sono ambulatori viaggianti che servono a garantire un minimo di servizi sanitari in zone particolari. In Africa vengono spesso usate per raggiungere le popolazioni nomadi, ritrose a presentarsi in ambulatorio. In Palestina la questione e’ diversa.
In Cisgiordania si possono trovare di frequente in quelle zone vicino alla Green Line, isolate dalla rete dei check point israeliani. Nella Striscia di Gaza tornano utili soprattutto dopo le scorribande dell’ esercito israeliano.
Spesso sono semplici tende dove si misura la pressione, si danno farmaci generici e si fa un check up della persona. A volte possono essere dei veri e propri Tir attrezzati per visite piu’ complesse. Durante il conflitto, magari, equipaggiati pure con attrezzature di cura intensiva per i feriti.
Tre di questi, appartenenti all’ Union of Healthcare Committees, sono stati distrutti durante un raid aereo il 5 gennaio. Erano parcheggiati all’interno della sede dell’UHC e le croci rosse, accompagnate dalla scritta “mobile clinic” non lasciavano dubbi sulla natura di questi mezzi.
Il dottor Raed Sabbah, consigliere dell’UHC, tramite Marcello, chi ha pregato di pubblicare il comunicato stampa del fatto:

Lunedì, 5 gennaio 2009-03-12

Attacco barbarico israeliano alle cliniche mobili e alla sede dell’UHCC

La scorsa notte alle 11, un F16 israeliano ha bombardato la sede principale dell’ Union of Health Care Commettes a Gaza city, colpendo le nostre tre cliniche mobili e un veicolo. Le tre cliniche mobili avevano appena finito di essere impiegate due giorni prima nel nord della Striscia di Gaza come ospedali da campo per alleggerire i carichi di feriti diretti agli ospedali veri e propri e rispondere alle continue incursioni israeliane nella Striscia di Gaza.

La Union of Health Care Committees considera questo attacco un crimine barbarico alle strutture sanitarie e una distruzione intenzionale delle infrastrutture mediche palestinesi.

Le tre cliniche mobili erano state comprate di recente ed allestite con strumenti ed attrezzature all’avanguardia, per un costo totale di circa $ 800.000. Servivano a raggiungere le zone piu’ marginalizzate e disagiate della Striscia di Gaza. Le cliniche erano state impegnate, durante gli attuali attacchi israeliani e l’invasione della Striscia di Gaza, ad aiutare a salvare quelle vite per cui Israele ha dimostrato di non avere alcuna pieta’ – uccidendo piu’ di 1300 persone e ferendone 6000 , ad oggi.

Anche la clinica di Gaza e’ stata danneggiata, così come alcune attrezzature. La clinica viene usata come centro di cure primarie a Gaza City e nel circondario, offrendo servizi medici specialistici.

Noi dell’ Union of Health Care Commettees vi chiediamo di divulgare la notizia di questo crimine senza precedenti. In una fase successiva porteremo Israele davanti alle corti internazionali.

Vi chiediamo ogni sforzo da parte vostra per fronteggiare uniti i barbari attacchi a Gaza e alle sue strutture civili.

Dr. Raed Sabbah.


Le tre cliniche mobili erano finanziate anche da DanChurchAid – www.danchurchaid.org- che ora ha intenzione di comprare almeno un nuovo veicolo per l’ area di Gaza.