mercoledì 22 aprile 2009

COME SEVIZIARE I DISABILI E FARLA FRANCA

di Marcello Sordo, Gaza

Al Salam significa “La Pace”. Quest'area era così chiamata per la caratteristica mitezza dei suoi abitanti, in prevalenza contadini. Salgo sul tetto dell'unico edificio rimasto in piedi, insieme a Vittorio Arrigoni e quattro attivisti di una Ong di Genova.
Le truppe di occupazione ne hanno fatto il loro quartiere per controllare la zona, lo hanno scelto per la posizione e per la struttura massiccia in cemento armato.
Gli israeliani, in gennaio, hanno dato cinque minuti di preavviso alle centinaia di abitanti di sgombrare la zona, mentre già F16 e zanana facevano piovere dal cielo il fuoco della persuasione.

In questa bella casa, dalle fattezze patrizie, vivevano una ragazza cieca e due disabili anziani. Questi, sicuri che la loro condizione avrebbe guadagnato la pietà dei militari, si sono rifiutati di accodarsi al resto della famiglia nella fuga, nel timore di rallentarne il corso. Purtroppo le loro speranze di compassione erano mal riposte.
La loro casa, divenuta una caserma improvvisata nonché postazione di cecchini, si è pure trasformata in luogo di prigionia e vessazioni. I tre sono stati rinchiusi in uno stanzino per dieci giorni, nutriti saltuariamente con gli avanzi dei ranci. Quando, in preda al terrore, si riunivano in cerchio per pregare, i militari facevano irruzione e iniziavano a picchiare; la ragazza, in particolare, veniva continuamente offesa e brutalizzata, mentre i militari la pressavano affinché confessasse una improbabile appartenenza ad Hamas. La ragazza, esausta, addirittura consigliava loro di controllare i propri numeri sul cellulare, affinché verificassero che non possedeva nessun indirizzo relativo alla resistenza. Solo dopo dieci giorni la Croce Rossa è riuscita a ottenere il rilascio delle povere creature, mentre intorno il villaggio si era trasformato in uno scenario lunare.

Quando la famiglia ha fatto ritorno, dopo il 18 gennaio, la desolazione era totale, tutti gli interni erano distrutti. Una furia barbara aveva infierito su ogni mobilio, disarticolato ogni oggetto come se il soldato volesse emulare la ben più temibile forza dei jet o dei bulldozer, sfregiare quanto più nel profondo una identità etnica percepita diversa e inferiore, mostrare quanto più odio e disprezzo possibile, intimando paura anche attraverso scritte sui muri ingiuriose verso il mondo arabo e la religione, anche con escrementi strisciati sulle pareti ferite.
I pochi averi e ori nascosti in casa erano scomparsi, come in un saccheggio medioevale ma questo appare normale nella lunga pulizia etnica che occorre in Palestina dal 1948, senza interruzione. Come nelle periodiche incursioni in Cisgiordania, in cui spesso capita che i tank entrino direttamente nelle banche per fare bottino.

WEAPONS of MASS DISTRUCTION
Il tetto predomina su Al Salam. Intorno non rimane più nulla, centinaia le case distrutte: prima stormi di F16 e zanana, fosforo bianco, Dime, esplosivi di ogni genere e potenziale, carbonio, tungsteno, arsenico, ogni fantastico prodotto della scienza atto a disintegrare, uccidere, amputare, rendere le ferite non guaribili, le gangrene inarrestabili, il terreno avvelenato chissà per quanto.

Mi mostrano il guscio di un proiettile aereo di plastica, ancora visibili le scritte in ebraico. La plastica lo fa apparire innocuo, malgrado la dimensione sia di una cinquantina di centimetri e il diametro di una decina. Esplodono a un metro dal suolo e sparano migliaia di frammenti intorno, perforando ogni cosa, anche il ferro dei container, frammenti in carbonio non sono rilevabili ai raggi X, impedendo ai chirurghi di fermare le emorragie.
Il fosforo bianco accompagna la fuga generale come in uno scenario biblico, le palle di fuoco perforano e incendiano ogni cosa, bucano i tetti, proseguono la loro corsa di piano in piano fino a raggiungere il suolo e continuano a bruciare, sequestrando ossigeno dall'aria, dall'acqua, dal sangue, come un fuoco eterno, una magica alchimia. Quando colpisce la pelle, penetra veloce nella carne, vampirizza l'ossigeno dei tessuti, acquista vigore, corrode, fino a trovare la via di fuga opposta all'impatto.
Seguono i carri armati e i cecchini. I comandi sono chiari: distruggere tutto, sparare su ogni cosa si muova e, perché il lavoro sia completo, i bulldozer intervengono appiattendo ogni residuo, sradicando ogni pianta, cancellando ogni traccia di vita dal terreno.

Verso est è riconoscibile la strada che percorre la Linea Verde, ogni tanto è attraversata da una jeep militare, ogni tanto cecchini scendono e tirano a qualche contadino che ha commesso l'imprudenza di coltivare troppo a ridosso del confine. Piccoli e lontani gli alberi giudei, come se anche ai prodotti della terra fosse stata imposta una razza o una confessione, mentre al di qua ogni cosa è stata sradicata, tranne la forza di resistere.
Mi incanto a guardare un appezzamento di terra ordinato e coltivato, disseminato di piccoli alberi da frutta alti nemmeno un metro. A tre mesi dall'armageddon i primi terreni vengono riportati a nuova vita come luce che squarcia il buio, la resistenza è un corpo che si rigenera e i tunnel sono le arterie attraverso cui un milione e mezzo di persone trovano la forza di esistere ogni giorno con un duro lavoro, a dispetto di un mondo che li nega, a dispetto di ogni luogo comune di matrice razzista.

La costanza di queste genti nel lavoro è ciò che più commuove, da 60 anni, con un sorriso rivolto al forestiero, e gli occhi al cielo, ricostruiscono il maltolto periodicamente distrutto. Come i cordoli dei marciapiedi: i tank sono soliti divertirsi zigzagando lungo i viali per polverizzarli e sistematicamente ogni volta i palestinesi li ricostruiscono, in una delle tante impari sfide. Però ora la ricostruzione si è fatta difficile perché l'assedio non consente il passaggio di alcun materiale edile. Cemento, legno, ferro, vetro, tutto negato a un Paese distrutto. Oltre 100 mila abitanti di Gaza sono rimasti senza casa (dati OMS). Per loro non c'è futuro perché non è concessa alcuna ricostruzione, a oltranza. I territori sono disseminati di tendopoli, bambini strappati alle loro camere, ai loro libri, ai loro giochi si radunano sotto una tenda per guardare cartoni alla televisione, sfuggendo per un momento all'orrore che li accompagna. Alcune famiglie, impavide, improvvisano giacigli sotto le macerie delle proprie case, a volte ville andate disintegrate: fieri affermano che quella è la loro casa, tutti i loro averi giacciono sotto quelle macerie, è lì che devono stare, mentre su ogni cumulo sventola la bandiera di Palestina.

Bandiera dalle tre bande: verde, bianca e nera. Nera è sempre la banda rivolta verso l'alto, sempre, come nera è la Nakba, la catastrofe, la pulizia etnica che da 60 anni non trova giustizia, soluzione, riconoscimento dalla Politica Internazionale. Come nera è la guerra e la violenza imposta a un popolo di contadini, commercianti, beduini, mussulmani, cristiani, drusi, circassi, ebrei, che per secoli hanno vissuto in pace, in comunità prevalentemente rurali ma anche in città, finché un tale di nome Theodor Herzl coniò la parola “Sionismo” e il compare David Ben Gurion realizzò il sogno coloniale di conquista ed epurazione nella millenaria terra di Palestina.


“OCCUPARE il QUARTIERE, DISTRUGGERE TUTTE le CASE”
Itzhak Levy, 1948
Ilan Pappe, in “La pulizia Etnica in Palestina”, dedica un intero capitolo alle città distrutte ed evacuate dalle milizie ebraiche nel 1948.
A Tibiriade, dove per secoli avevano convissuto in pace 6000 ebrei e 5000 arabi, tutti palestinesi, le forze dell'Haganà in pochi giorni misero in fuga tutti gli arabi. Dopo pesanti bombardamenti fecero rotolare dalle colline bombe-barile e diffusero con altoparlanti terribili frastuoni per allontanare la gente. Pappe paragona queste tecniche a versioni primitive degli odierni voli supersonici sul Libano e sui Territori Occupati.
La dearabizzazione di Haifa iniziò nel dicembre '47 con una campagna terroristica fatta di pesanti bombardamenti, cecchini, fiumi di olio e carburante in fiamme buttati giù dalle montagne, barili di esplosivo lanciati sulle folle. Mentre le classi benestanti palestinesi evacuarono le loro case dall'inizio, verso residenze in Libano, per altri 55 mila arabi rimasti fu un macello.

“All'alba del 22 aprile la gente cominciò ad affluire al porto. Poiché in quella parte della città le strade erano già superaffollate di persone in fuga, i leader improvvisati della comunità araba tentarono di mettere un po' d'ordine nel caos. Si sentivano altoparlanti che spingevano la gente a radunarsi nella vecchia piazza del mercato vicino al porto e a radunarsi lì fino a quando non si riusciva a organizzare un'evacuazione ordinata via mare. “Gli ebrei hanno occupato Stanton Road e stanno arrivando”, urlava l'altoparlante.
Il diario di guerra della brigata Carmeli (ebraica) mostra ben pochi rimorsi su ciò che avvenne in seguito. Gli ufficiali della brigata, sapendo che la popolazione era stata avvisata di radunarsi vicino all'entrata del porto, ordinarono agli uomini di piazzare mortai da tre pollici su pendii della montagna sopra il mercato e il porto e di bombardare la folla che si ammassava lì sotto. Questo per impedire alla gente di ripensarci e di assicurarsi che la fuga avvenisse in un'unica direzione. Una volta che i palestinesi si fossero radunati nella piazza del mercato -un gioiello architettonico risalente al periodo ottomano con tetti a volta, ma irriconoscibile dopo la sua distruzione successiva alla creazione dello Stato di Israele- sarebbero stati un facile bersaglio per i tiratori scelti ebrei.
Il mercato di Haifa era a circa trenta metri dall'entrata principale del porto. Quando iniziò il bombardamento questa era la naturale via di fuga per i palestinesi presi dal panico. Quindi la folla fece irruzione nel porto scavalcando i poliziotti di guardia all'entrata. Centinaia di persone presero d'assalto le imbarcazioni ormeggiate e cominciarono a fuggire dalla città.” da Ilan Pappe: La Pulizia Etnica della Palestina.
Pappe prosegue citando lo storico Walid Khalidi da Selected Documents on the 1948 war: “uomini che calpestavano gli amici, le donne e persino i propri figli. Le barche si riempirono subito di un carico umano, e tutti erano orrendamente pigiati. Molte barche si capovolsero e affondarono con tutti dentro”.

Seguì l'epurazione di Safad che contava 9500 arabi e 2400 ebrei.
La campagna di pulizia che toccò a Gerusalemme è ricordata da un allora capo dell'intelligence dell'Haganà: “Cominciarono i saccheggi e i furti. Vi presero parte sia soldati che cittadini (ebrei). Irruppero nelle case e portarono via mobilio, abbigliamento, attrezzature elettriche e cibo” Itzhak Levy da Jerusalem in the War of Indipendence. Nel suo diario di orrori ricorda gli ordini impartiti agli ebrei: “occupare il quartiere e distruggere tutte le case”.
Un ordine che si è succeduto a Safat, Acre, Nazareth, Baysan, Jenin, Tul-Karem, Lydd, Jaffa, Ramla, Majdal, Hebron, Gaza e in migliaia di villaggi, fino ad oggi.
Lascio al lettore ogni comparazione e riflessione su sessantun anni di storia che si susseguono come un incubo senza fine.

Mentre scrivo da lontano giungono i boati sordi delle batterie delle navi da guerra, sparate contro i pescatori, nel cielo ronzano i zanana, a Rafah qualche F16 è a caccia di tunnel da distruggere, lungo i confini i cecchini vigilano, in West Bank le case e i campi vengono distrutti intanto che si prepara una nuova intifada fatta di pietre e urli di disperazione.
Un palestinese indica la propria bandiera: “un giorno verrà la pace e tutti i profughi faranno ritorno alle proprie case, quel giorno in cima alla bandiera svetterà la banda verde della vita e della terra, mentre il nero sarà rivoltato in basso, come un vecchio, brutto ricordo”.


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