sabato 25 aprile 2009

VENERDI' SANTO

di Marcello Sordo, Gaza.

Venerdì di passione. Assorto tra i canti di uccelli, i canti coranici vicini, i rumori attutiti dalla festività e dalla sabbia. Percepisco la sigaretta appesa al nulla, un nulla che assorbe la passione di questa terra, che si sforza di comprendere la naturale dolcezza di un popolo sofferente, che si perde nella complessa vastità che lo accoglie, circondato da giardini curati e case rese monche da una perpetua privazione.
Mi scopro lo sguardo perso verso sud est; ogni mattino, al risveglio, il mio sguardo si è rivolto laggiù oltre il muro, come attratto da un evento o da una energia.

Ritornano le parole di Shads (miele) e le emozioni che ha scaturito una sera.
“Tu credi in Mohammad?” La sua domanda suonava come un'affermazione, il mio delicato diniego la stupiva senza ledere la dolcezza e la grazia con cui mi parlava. “Quando ti ho visto entrare in questa casa, la prima volta, ti ho pensato mussulmano e ne sono rimasta colpita”. Mi fissa negli occhi, con la forza della luce pulita, e mi parla dei modi gentili, dell'alterità, del rispetto degli spazi , dell'impegno sociale e riconduce la virtù alla fede, ai precetti religiosi che rendono la convivenza armoniosa in ogni gesto rivolto a Dio. Forse in un pensiero laico europeo mi avrebbe parlato di empatia, ma è più probabile che io non afferri significati più profondi.
Il suo invito alla fede è tanto delicato e carico di forza che mi sovrasta, invade il pensiero come un balsamo mentolato che si assorbe e attiva ogni recettore nervoso. La mia mancanza di fede religiosa, carica di umanità e rispetto, fa sì che parliamo comunque la stessa lingua, universale, rende il dialogo intenso come in un momento di rivelazione. I suoi occhi scuri e luminosi sono buoni e intelligenti, i diciotto anni si riconoscono nei tratti del viso circondati dal foulard, il copricapo ne esalta la bellezza piuttosto che manifestarne rigore, l'espressione è di una donna matura e consapevole.
Un contrasto comune, tra i moti dell'età e l'esperienza indotta, si manifesta nell'adolescenza ma solo con gli ausili individuali dello spirito si sedimenta qualcosa di vivace e pacato, dinamico e saggio.
Mi spiega con naturalezza come l'Islam sia l'evoluzione delle religioni monoteiste, di profeta in profeta, e di come rispetti le altre confessioni, riconosca tutti i testi sacri; tra me penso a una sorta di evoluzionismo teologico e sorrido. Timidamente dico che tutte le religioni hanno la loro dignità e che ci deve essere un Dio per tutti gli uomini, di cui non conosco il nome e ognuno dà un nome differente per un senso comune. Allora prova ad arguire citando il paradiso e l'inferno ma per me si fa troppo difficile e dribblo parlando di comportamenti buoni e giusti, di non ledere il prossimo e nuovamente parliamo la stessa lingua.


UN NAUFRAGO SGUARDO DA UNA NAVE IN SECCA
Venerdì dal quieto distacco, dal sofferto insoluto, dai vetri rotti. Guardo il palazzo di fronte e tutte le finestre spoglie, infrante, contuse. Cartoni e teli attaccati agli infissi serrano bocche che hanno urlato al fragore delle bombe, si oppongono al freddo che preme in un lotta impari. Ho passato marzo a battere i denti in un clima che aveva poco di esotico ma era nulla a confronto dell'inverno passato dai palestinesi, dei 22 giorni in gennaio nel frastuono e tra i lampi che hanno mandato in frantumi ogni vetro, senza più luce, gas, nulla per riscaldarsi o mangiare.
Le facciate, le pietre, le solide pareti, animiste creature ripiene di vita, immobili totem hanno assistito alla furia e alla morte, registrato ogni ingiustizia, assorbito nell'intimo di elementi spugnosi lo scempio, sole sostanze rimarranno nel tempo a conservare memoria della miseria umana, edifici animati rimasti in piedi, statici giganti, a loro volta tremolanti, deboli, improvvisamente fragili sotto la minaccia costante di essere penetrati e violati, afflosciati da un vento cattivo.

Al Salam, il villaggio violato, disseminato da dune funeree, da gobbe contorte di ferro e cemento.
Sulla cima di una rovina un uomo segnato dal sole e dal lavoro, lo sguardo vacuo di chi ha perso tutto, scende venendomi incontro, la forza residua di un sorriso e un gesto di benvenuto ha un'origine a me sconosciuta. Si chiama Hakmad, si avvicina un bambino sui cinque anni che gli si appiccica al pantalone, mentre riceve la mano paterna in un gesto di consolazione. Sì, mi risponde, è il proprietario di quella che era una casa. Gli hanno ammazzato anche quindici mucche. Come ogni contadino di questo mondo, non voleva abbandonare la casa quando gli era stato intimato, sono usciti correndo, con tutta la famiglia, mentre il tetto crollava giù sulla testa; hanno camminato a piedi fino a Jabalia, un paio di chilometri, sotto un temporale di fuoco.

Più avanti una famiglia si è accampata sotto un varco della loro casa disintegrata. Ora è una caverna. Ringraziano Dio per un frigo donatogli il giorno prima, tutto il resto è perso tra i blocchi di cemento armato, il palazzo aveva tre piani e ospitava venti persone. Dalla grotta una donna su una sedia, immobile sembra una mondina che ha perso il raccolto, sul letto affianco i tre figli ammassati, senza saper dove andare in un luogo privato del proprio contesto.
Il padre, Zaied Khader, si rivolge a noi con scienza e coscienza, improvvisa un discorso.
Ringrazia i visitatori, esprime riconoscenza per il popolo italiano e cordoglio per le vittime del terremoto ma si dispiace per il Governo d'Italia, come del resto d'Europa. Muto di fronte al loro dramma, incurante dei crimini da loro subiti, sostenitore delle scelte di Israele nel distruggere il popolo palestinese, il Governo italiano dovrebbe invece fare pressione affinché l'assedio finisca. L'assedio della scarsità di acqua, dell'elettricità razionata, dell'impossibilità di importare materiale edile che li destina a una vita da baraccati, del cibo dispensato loro in elemosina, mentre viene impedito loro di lavorare, dei pescatori minacciati, della dignità negata.
Invita i Ministri italiani a venire, visitare i campi profughi e le rovine, a comprendere di persona la violazione di ogni diritto umano che si consuma con l'occupazione militare e l'assedio, a fare una comparazione tra gli insignificanti danni subiti dai razzi della resistenza e la distruzione totale a Gaza.
Racconta che ha lavorato trent'anni in Israele, con i soldi laggiù guadagnati si era costruito la casa, la casa distrutta in un secondo. Alla sua famiglia sono state distrutte ben 35 case. “Dov'è la democrazia di cui parlano?” ci domanda, domanda, vorrebbe domandare ai nostri ministri.
Raggiungiamo un signore anziano, i vestiti tradizionali, una espressione di una folle disperazione, gli occhi acquosi come di un pianto senza fine. Il ricevimento è pur sempre gentile, è il Mokhtar della famiglia, il primo Moktar che conosco, e gli chiedo il permesso per una foto ritratto che mi viene concessa con un sorriso, con la solita ospitalità proverbiale. Poco più in là una tenda accoglie bambini di fronte a un televisore, come nel surreale momento di una normalità ritrovata. Una ragazzina si volta e mostra al mio obiettivo inattesi occhi azzurri di una intensità pacata, di una luce sospesa tra sogni dell'infanzia fuggiti e futuri negati.


LA RIVELAZIONE (Armageddon)
Ieri, mentre scrivevo, la luce è stata interrotta ben cinque volte: per venti minuti, un paio d'ore, otto ore; questa è la norma da due anni almeno, anche questa è guerra. Deprivazione, offesa, intimidazione, ricordare a ogni giugulare pulsante di Gaza di quanto insignificante e precaria sia qui la vita, di quanto un lontano arbitrio possa impossessarsi, padrone, del destino di ognuno.
Fino alla soluzione finale, Armageddon, l'arma nucleare, come l'attuale Ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha pacatamente consigliato di usare durante la scorsa aggressione. Deve aver pronunciato così pacatamente tanto orrore da raccogliere, forse, anche l'approvazione dell'amico Veltroni, che, come tutti gli sceriffi del mitico West, non ha mosso ciglio. Tacita approvazione.

Durante la mia scrittura, Shads mi ha fatto visita in camera. Le traduco ciò che scrivo di lei e ricevo la sua approvazione.
E' preoccupata. Nella premura, tipica dell'adolescenza, mi manifesta il suo tormento, richiede il mio intervento per una immediata soluzione.
Ricomincia con la storia del Paradiso e l'Inferno, della necessità di rivolgere ogni azione a Dio, di pregare ed essere devoti.
Inizia a parlare della morte, come se gli fosse accanto, come fosse accanto a me, con familiarità, ride pure, allora ci scherziamo un po' sopra.
Comunque non c'è tempo, insiste, sembra quasi pregarmi affinché io decida di fare il passo finale, per salvare la mia anima al cospetto di Dio. Mi manifesta il sua affetto, è sincera, dice che sono meritevole, che la morte è sempre improvvisa e noi ne ignoriamo il sopraggiungere, che manco dell'elemento fondamentale alla salvezza: la fede. Mi chiede di convertirmi per pregare nell'adeguata maniera.
Dal colloquio precedente, magico e seducente, come seducenti sono le vie dello spirito, mi distacco e assumo un atteggiamento analitico, ma non critico per non apparire ostile a sentimenti così intimi. Parliamo a lungo, finché arriva una risposta che mi illumina, non nel cuore ma nella mente. Shads mi racconta il tempo in cui la fede si è rivelata in lei con tanta forza. Mi dice che lei era come le sue sorelle, non usava copricapi, portava abiti succinti, mostrava la propria bellezza e non si curava dei precetti coranici ma.
Ma sotto la guerra.
Ma sotto le bombe.
Ma nella morte imminente.
Ma nei teneri diciotto anni ancora da compiere, a Shads si è rivelata l'unica cosa che in questo mondo può essere salvata: l'anima.
Lungo i 22 giorni di terrore, mentre ogni lembo del proprio corpo poteva essere strappato e dissanguato, dove non esisteva protezione o corte, autorità od ordine a cui poter mostrare la propria innocenza, la propria incoscienza, la propria freschezza, la propria giovane appartenenza a un mondo miserabile, Shads ha scoperto ti essere piena di peccati, di non essere meritevole al cospetto di Dio, di non osservare i precetti, che se fosse morta non avrebbe goduto dello status di martire (Shaheed) che gli avrebbe aperto la strada diretta per il Paradiso.
La parola “shaheed” mi mette i brividi, accuso la disperazione, percepisco l'urlo della vita soffocata. Una ragazza intelligente, con doti artistiche nel disegno e nel canto, con l'aspirazione a diventare un giorno medico, supportata da una famiglia moderna ma anche etica, osservante ma anche laica. Ha paura dei propri peccati, peccati di ragazzina, ha paura che mostrando i propri capelli, le proprie braccia, le proprie mani non faccia cosa grata a Dio.
Ha paura.
Diritti Umani, Democrazia, Progresso, Giustizia, Dignità: tutte parole spazzate via con la forza delle armi, non danno risposte alle paure di Shads, malgrado siano le parole con cui è stata educata da un padre progressista.

Cosa sta facendo l'Occidente a questo mondo, una volta gentile e tollerante?
Milioni di afgani, iracheni, persiani, palestinesi, libanesi, giordani, egiziani. Oltre 1,3 miliardi di musulmani sono costantemente umiliati, in particolare negli ultimi otto anni. Oltre un milione di iracheni uccisi in una delle guerre più oscene e bugiarde della Storia. Il popolo palestinese da 61 anni paga per una continua pulizia etnica che è riconosciuta solo dagli storici in ambito accademico ma non trova voce nella diplomazia internazionale. I paesi arabi più corrotti e autoritari godono del complice silenzio delle Superpotenze che spartiscono i dividendi del petrolio tra poche famiglie locali, privando le popolazioni di risorse e sviluppo. Ogni paese che negli ultimi 30 anni si è affacciato sulla soglia della modernità, si è dato un ordinamento laico per raccogliere la sfida della Storia Contemporanea, è stato ricacciato indietro, minato nell'interno con i dollari dall'esterno, corroso e assediato da forme di fondamentalismo sempre finanziate, direttamente o indirettamente, dai servizi di intelligence occidentali.
E' innegabile che gli USA hanno vinto la Guerra Fredda anche per il sostegno, dato e ricevuto, dell'integralismo islamico, è innegabile che, oggi, chiedano il conto, un conto che il mondo arabo sta pagando a duro prezzo, col prezzo del sangue: dall'Algeria, alla Bosnia, correndo fino al Pakistan.

E' di oggi la notizia dell'ennesimo attacco suicida in Iraq.
Due donne, cariche di esplosivo, si sono fatte esplodere in un santuario sciita, uccidendo 60 persone. Chi erano queste due donne? Qual'è la tragedia, il dolore, la follia che porta a un gesto tanto atroce?

Liberatevi da ogni irrazionale pregiudizio, distillato da una stampa scellerata giorno per giorno, e pensate che non esiste alcuna cultura, alcuna religione che spinge a un gesto tanto estremo. E' solo disperazione, una tremenda disperazione condita da una ignoranza indotta, di cui siamo tutti colpevoli, colpevoli di subire un costante plagio, malgrado siamo tutti forniti degli adeguati strumenti culturali per riconoscere che “il re è nudo”.
Quando mi sono interessato a degli studi epidemiologici sui costi umani della guerra in Iraq, mi sono imbattuto in indagini e testimonianze sconvolgenti sugli squadroni della morte (http://www.brusselstribunal.org/index.htm) e sui metodi “sudamericani” adottati, inusuali sul campo mediorientale, mentre John Negroponte era ambasciatore a Baghdad. Lo stesso che era ambasciatore in Honduras negli anni '80, con gli stessi squadroni della morte, almeno per metodo. Lo stesso che sosteneva i Contras in Nicaragua, guarda caso sovvenzionati con soldi iraniani. Gli stessi iraniani che dal 2003 sono alleati, sul campo, con l'intelligence americana per soffocare la resistenza nazionale; malgrado i Media tacciano sulla santa alleanza, continuando a farneticare su fantomatici conflitti in Persia che sono puntualmente disattesi, Media troppo impegnati a crociate atte a fomentare guerre di religioni tra i poveri.
Il Conflitto di Civiltà non esiste, nessun popolo lo vuole, lo cerca, lo desidera.
“Dividi et Impera”, è questo l'unico conflitto, e presto ne pagheremo il prezzo in tutto il Mondo.

Dal Paradiso negato di Gaza
Siamo tutti assediati



mercoledì 22 aprile 2009

COME SEVIZIARE I DISABILI E FARLA FRANCA

di Marcello Sordo, Gaza

Al Salam significa “La Pace”. Quest'area era così chiamata per la caratteristica mitezza dei suoi abitanti, in prevalenza contadini. Salgo sul tetto dell'unico edificio rimasto in piedi, insieme a Vittorio Arrigoni e quattro attivisti di una Ong di Genova.
Le truppe di occupazione ne hanno fatto il loro quartiere per controllare la zona, lo hanno scelto per la posizione e per la struttura massiccia in cemento armato.
Gli israeliani, in gennaio, hanno dato cinque minuti di preavviso alle centinaia di abitanti di sgombrare la zona, mentre già F16 e zanana facevano piovere dal cielo il fuoco della persuasione.

In questa bella casa, dalle fattezze patrizie, vivevano una ragazza cieca e due disabili anziani. Questi, sicuri che la loro condizione avrebbe guadagnato la pietà dei militari, si sono rifiutati di accodarsi al resto della famiglia nella fuga, nel timore di rallentarne il corso. Purtroppo le loro speranze di compassione erano mal riposte.
La loro casa, divenuta una caserma improvvisata nonché postazione di cecchini, si è pure trasformata in luogo di prigionia e vessazioni. I tre sono stati rinchiusi in uno stanzino per dieci giorni, nutriti saltuariamente con gli avanzi dei ranci. Quando, in preda al terrore, si riunivano in cerchio per pregare, i militari facevano irruzione e iniziavano a picchiare; la ragazza, in particolare, veniva continuamente offesa e brutalizzata, mentre i militari la pressavano affinché confessasse una improbabile appartenenza ad Hamas. La ragazza, esausta, addirittura consigliava loro di controllare i propri numeri sul cellulare, affinché verificassero che non possedeva nessun indirizzo relativo alla resistenza. Solo dopo dieci giorni la Croce Rossa è riuscita a ottenere il rilascio delle povere creature, mentre intorno il villaggio si era trasformato in uno scenario lunare.

Quando la famiglia ha fatto ritorno, dopo il 18 gennaio, la desolazione era totale, tutti gli interni erano distrutti. Una furia barbara aveva infierito su ogni mobilio, disarticolato ogni oggetto come se il soldato volesse emulare la ben più temibile forza dei jet o dei bulldozer, sfregiare quanto più nel profondo una identità etnica percepita diversa e inferiore, mostrare quanto più odio e disprezzo possibile, intimando paura anche attraverso scritte sui muri ingiuriose verso il mondo arabo e la religione, anche con escrementi strisciati sulle pareti ferite.
I pochi averi e ori nascosti in casa erano scomparsi, come in un saccheggio medioevale ma questo appare normale nella lunga pulizia etnica che occorre in Palestina dal 1948, senza interruzione. Come nelle periodiche incursioni in Cisgiordania, in cui spesso capita che i tank entrino direttamente nelle banche per fare bottino.

WEAPONS of MASS DISTRUCTION
Il tetto predomina su Al Salam. Intorno non rimane più nulla, centinaia le case distrutte: prima stormi di F16 e zanana, fosforo bianco, Dime, esplosivi di ogni genere e potenziale, carbonio, tungsteno, arsenico, ogni fantastico prodotto della scienza atto a disintegrare, uccidere, amputare, rendere le ferite non guaribili, le gangrene inarrestabili, il terreno avvelenato chissà per quanto.

Mi mostrano il guscio di un proiettile aereo di plastica, ancora visibili le scritte in ebraico. La plastica lo fa apparire innocuo, malgrado la dimensione sia di una cinquantina di centimetri e il diametro di una decina. Esplodono a un metro dal suolo e sparano migliaia di frammenti intorno, perforando ogni cosa, anche il ferro dei container, frammenti in carbonio non sono rilevabili ai raggi X, impedendo ai chirurghi di fermare le emorragie.
Il fosforo bianco accompagna la fuga generale come in uno scenario biblico, le palle di fuoco perforano e incendiano ogni cosa, bucano i tetti, proseguono la loro corsa di piano in piano fino a raggiungere il suolo e continuano a bruciare, sequestrando ossigeno dall'aria, dall'acqua, dal sangue, come un fuoco eterno, una magica alchimia. Quando colpisce la pelle, penetra veloce nella carne, vampirizza l'ossigeno dei tessuti, acquista vigore, corrode, fino a trovare la via di fuga opposta all'impatto.
Seguono i carri armati e i cecchini. I comandi sono chiari: distruggere tutto, sparare su ogni cosa si muova e, perché il lavoro sia completo, i bulldozer intervengono appiattendo ogni residuo, sradicando ogni pianta, cancellando ogni traccia di vita dal terreno.

Verso est è riconoscibile la strada che percorre la Linea Verde, ogni tanto è attraversata da una jeep militare, ogni tanto cecchini scendono e tirano a qualche contadino che ha commesso l'imprudenza di coltivare troppo a ridosso del confine. Piccoli e lontani gli alberi giudei, come se anche ai prodotti della terra fosse stata imposta una razza o una confessione, mentre al di qua ogni cosa è stata sradicata, tranne la forza di resistere.
Mi incanto a guardare un appezzamento di terra ordinato e coltivato, disseminato di piccoli alberi da frutta alti nemmeno un metro. A tre mesi dall'armageddon i primi terreni vengono riportati a nuova vita come luce che squarcia il buio, la resistenza è un corpo che si rigenera e i tunnel sono le arterie attraverso cui un milione e mezzo di persone trovano la forza di esistere ogni giorno con un duro lavoro, a dispetto di un mondo che li nega, a dispetto di ogni luogo comune di matrice razzista.

La costanza di queste genti nel lavoro è ciò che più commuove, da 60 anni, con un sorriso rivolto al forestiero, e gli occhi al cielo, ricostruiscono il maltolto periodicamente distrutto. Come i cordoli dei marciapiedi: i tank sono soliti divertirsi zigzagando lungo i viali per polverizzarli e sistematicamente ogni volta i palestinesi li ricostruiscono, in una delle tante impari sfide. Però ora la ricostruzione si è fatta difficile perché l'assedio non consente il passaggio di alcun materiale edile. Cemento, legno, ferro, vetro, tutto negato a un Paese distrutto. Oltre 100 mila abitanti di Gaza sono rimasti senza casa (dati OMS). Per loro non c'è futuro perché non è concessa alcuna ricostruzione, a oltranza. I territori sono disseminati di tendopoli, bambini strappati alle loro camere, ai loro libri, ai loro giochi si radunano sotto una tenda per guardare cartoni alla televisione, sfuggendo per un momento all'orrore che li accompagna. Alcune famiglie, impavide, improvvisano giacigli sotto le macerie delle proprie case, a volte ville andate disintegrate: fieri affermano che quella è la loro casa, tutti i loro averi giacciono sotto quelle macerie, è lì che devono stare, mentre su ogni cumulo sventola la bandiera di Palestina.

Bandiera dalle tre bande: verde, bianca e nera. Nera è sempre la banda rivolta verso l'alto, sempre, come nera è la Nakba, la catastrofe, la pulizia etnica che da 60 anni non trova giustizia, soluzione, riconoscimento dalla Politica Internazionale. Come nera è la guerra e la violenza imposta a un popolo di contadini, commercianti, beduini, mussulmani, cristiani, drusi, circassi, ebrei, che per secoli hanno vissuto in pace, in comunità prevalentemente rurali ma anche in città, finché un tale di nome Theodor Herzl coniò la parola “Sionismo” e il compare David Ben Gurion realizzò il sogno coloniale di conquista ed epurazione nella millenaria terra di Palestina.


“OCCUPARE il QUARTIERE, DISTRUGGERE TUTTE le CASE”
Itzhak Levy, 1948
Ilan Pappe, in “La pulizia Etnica in Palestina”, dedica un intero capitolo alle città distrutte ed evacuate dalle milizie ebraiche nel 1948.
A Tibiriade, dove per secoli avevano convissuto in pace 6000 ebrei e 5000 arabi, tutti palestinesi, le forze dell'Haganà in pochi giorni misero in fuga tutti gli arabi. Dopo pesanti bombardamenti fecero rotolare dalle colline bombe-barile e diffusero con altoparlanti terribili frastuoni per allontanare la gente. Pappe paragona queste tecniche a versioni primitive degli odierni voli supersonici sul Libano e sui Territori Occupati.
La dearabizzazione di Haifa iniziò nel dicembre '47 con una campagna terroristica fatta di pesanti bombardamenti, cecchini, fiumi di olio e carburante in fiamme buttati giù dalle montagne, barili di esplosivo lanciati sulle folle. Mentre le classi benestanti palestinesi evacuarono le loro case dall'inizio, verso residenze in Libano, per altri 55 mila arabi rimasti fu un macello.

“All'alba del 22 aprile la gente cominciò ad affluire al porto. Poiché in quella parte della città le strade erano già superaffollate di persone in fuga, i leader improvvisati della comunità araba tentarono di mettere un po' d'ordine nel caos. Si sentivano altoparlanti che spingevano la gente a radunarsi nella vecchia piazza del mercato vicino al porto e a radunarsi lì fino a quando non si riusciva a organizzare un'evacuazione ordinata via mare. “Gli ebrei hanno occupato Stanton Road e stanno arrivando”, urlava l'altoparlante.
Il diario di guerra della brigata Carmeli (ebraica) mostra ben pochi rimorsi su ciò che avvenne in seguito. Gli ufficiali della brigata, sapendo che la popolazione era stata avvisata di radunarsi vicino all'entrata del porto, ordinarono agli uomini di piazzare mortai da tre pollici su pendii della montagna sopra il mercato e il porto e di bombardare la folla che si ammassava lì sotto. Questo per impedire alla gente di ripensarci e di assicurarsi che la fuga avvenisse in un'unica direzione. Una volta che i palestinesi si fossero radunati nella piazza del mercato -un gioiello architettonico risalente al periodo ottomano con tetti a volta, ma irriconoscibile dopo la sua distruzione successiva alla creazione dello Stato di Israele- sarebbero stati un facile bersaglio per i tiratori scelti ebrei.
Il mercato di Haifa era a circa trenta metri dall'entrata principale del porto. Quando iniziò il bombardamento questa era la naturale via di fuga per i palestinesi presi dal panico. Quindi la folla fece irruzione nel porto scavalcando i poliziotti di guardia all'entrata. Centinaia di persone presero d'assalto le imbarcazioni ormeggiate e cominciarono a fuggire dalla città.” da Ilan Pappe: La Pulizia Etnica della Palestina.
Pappe prosegue citando lo storico Walid Khalidi da Selected Documents on the 1948 war: “uomini che calpestavano gli amici, le donne e persino i propri figli. Le barche si riempirono subito di un carico umano, e tutti erano orrendamente pigiati. Molte barche si capovolsero e affondarono con tutti dentro”.

Seguì l'epurazione di Safad che contava 9500 arabi e 2400 ebrei.
La campagna di pulizia che toccò a Gerusalemme è ricordata da un allora capo dell'intelligence dell'Haganà: “Cominciarono i saccheggi e i furti. Vi presero parte sia soldati che cittadini (ebrei). Irruppero nelle case e portarono via mobilio, abbigliamento, attrezzature elettriche e cibo” Itzhak Levy da Jerusalem in the War of Indipendence. Nel suo diario di orrori ricorda gli ordini impartiti agli ebrei: “occupare il quartiere e distruggere tutte le case”.
Un ordine che si è succeduto a Safat, Acre, Nazareth, Baysan, Jenin, Tul-Karem, Lydd, Jaffa, Ramla, Majdal, Hebron, Gaza e in migliaia di villaggi, fino ad oggi.
Lascio al lettore ogni comparazione e riflessione su sessantun anni di storia che si susseguono come un incubo senza fine.

Mentre scrivo da lontano giungono i boati sordi delle batterie delle navi da guerra, sparate contro i pescatori, nel cielo ronzano i zanana, a Rafah qualche F16 è a caccia di tunnel da distruggere, lungo i confini i cecchini vigilano, in West Bank le case e i campi vengono distrutti intanto che si prepara una nuova intifada fatta di pietre e urli di disperazione.
Un palestinese indica la propria bandiera: “un giorno verrà la pace e tutti i profughi faranno ritorno alle proprie case, quel giorno in cima alla bandiera svetterà la banda verde della vita e della terra, mentre il nero sarà rivoltato in basso, come un vecchio, brutto ricordo”.