sabato 21 marzo 2009

I PRIMI QUATTORDICI GIORNI

di Marcello Sordo, Gaza

Credo conclusa la prima fase di permanenza a Gaza. Già mi sentivo a casa, affacciato sul Mediterraneo, dal principio, ma ora mi sento perfettamente inserito nel contesto sociale e umano.

Questi primi quattordici giorni sono stati scanditi dal lavoro al Pronto Soccorso di Al Awda, iniziato a due giorni dal mio arrivo, dalle otto alle quattordici, dai molti incontri istituzionali, con varie agenzie delle Nazioni Unite, l'Organizzazione Mondiale della Salute, il Municipio, Ministeri, Associazioni varie, Centri Culturali, Ambulatori, Medici, ONG e tutto ciò che potesse essere utile per avviare un intervento di ordine sanitario da parte dell'Associazione.

E' stato spesso utile accompagnare la delegazione medica, con la quale ero arrivato, in questi incontri e lo scambio di idee e di differenti punti di vista professionali, che hanno sviluppato tre differenti percorsi: di salute mentale sui disordini da stress post bellico, di Salute Pubblica e Medicina di Base e, infine, di formazione in ambito ospedaliero, di cui personalmente mi sto occupando.

Per il resto era un rincorrere connessioni internet in giro per i dedali sterminati di Gaza City (un' impresa imparare a orientarsi senza ausilio di cartine, che qua non esistono) per mantenere la rete con i compagni a Genova, visto che le comunicazioni sono state danneggiate pesantemente dai bombardamenti, in particolare nell'area nord di Jabalya, dove risiedo all'interno dell'ospedale.

Spesso mi sono anche trattenuto quassù in ospedale, con medici e colleghi, per non affrontare il lungo viaggio, mezz'ora di taxi, che mi separa da Gaza City, rintanato nell'estrema periferia, sull'alta collina a ridosso del poverissimo Campo Profughi di Jabalya.

L'ospedale non ha più feriti della guerra, essendo specializzato in chirurgia elettiva, ginecologia e neonatologia e, da quando sono arrivato, ho solo visto un caso di un bambino di tre anni, Mousa Suleman, con un'ustione di primo grado a un piede da fosforo bianco avvenuta due giorni prima, mentre camminava in un campo. A trentotto giorni dalla fine dell'aggressione il fosforo brucia ancora sotto la terra e rappresenta un pericolo.

Ora la connessione a nord di Gaza è stata ripristinata e scrivo dagli uffici dell'ospedale, da cui godo una vista incantevole su tutta la città sterminata. Laggiù, a nord ovest, un brulichio di luci rivela l'opulenza e l'energia priva di parsimonia di Israele e il pericolo. Alcuni giorni fa, da queste finestre, un collega mi informava dell'esistenza di una zona “gialla” mortale in territorio palestinese, profonda due chilometri lungo il confine,, dove l'esercito israeliano ha raso al suolo ogni casa e distrutto ogni coltura durante l'invasione e dove i cecchini sparano a vista a chiunque la penetri. Allora mi ricorda della notizia di qualche settimana fa di una delegazione governativa francese che, forse imprudente, era diventata bersaglio in quella striscia di terra. Tra muri, colonie e poligoni di tiro il furto di terre palestinese rimane lo sport nazionale di parte sionista.

Da domani inizierò, con più calma, a dedicarmi a un aspetto più sociale e umano di testimonianza, per capire cosa abbiano rappresentato gli orribili ventidue giorni di distruzione e morte per bambini, donne e uomini di un paese straordinario che si chiama Palestina.

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