domenica 5 aprile 2009

UNA FLOTTA DI AQUILONI


di Marcello Sordo, gaza

30 marzo.

Oggi ho bigiato la mattina di lavoro al Pronto Soccorso di Al Awda Hospital.

L'amico Majed, dirigente dell'Unione dei Giovani Progressisti, mi aveva invitato alla loro manifestazione per il “Land Day”, conosciuta in arabo come “Youm Al-Ard”.

La “Giornata della Terra” è ricordata da tutti i palestinesi in Israele, nei Territori Occupati e in tutti i campi profughi disseminati in Medio Oriente.


Il 30 marzo 1976 ci fu uno sciopero generale nelle città arabe della Galilea, in risposta all'annuncio del Governo israeliano della confisca di migliaia di ettari di terra palestinese. La giornata di manifestazioni pacifiche si concluse con l'intervento di carri armati e costò la vita di sei palestinesi, il ferimento di altri 96 e l'arresto di oltre 300 manifestanti.

Le Autorità Israeliane confiscarono 5.500 ettari di terra e dichiararono tutti i villaggi e le città palestinesi come territori chiusi e soggetti a occupazione militare e coprifuoco. Tutte quelle terre sono oggi occupate da insediamenti israeliani illegali.

Dal 1967 Israele ha confiscato più di 750 mila acri di terra palestinese, la maggior parte della quale per fare spazio a nuove colonie e per costruire strade di accesso alle colonie stesse a solo uso esclusivo dei coloni ebrei, ulteriore fattore di esclusione e di Apartheid. Dal 1948 ben l' 85% delle terre appartenute a palestinesi sono state confiscate, molte delle quali portate via agli oltre 800 mila profughi che allora vennero cacciati.


Majed è in testa alla manifestazione in cordone con gli altri quadri, alcuni dei quali reduci dalle prigioni israeliane. Il corteo che segue è molto colorato anche se mostra una certa disciplina e ordine nella formazione. Due ali del corteo sono formate da colonne di ragazzi armati di scudi di carta, con i colori della bandiera e mossi da frange, alcuni con il disegno della chiave al centro, simbolo del ritorno alle proprie case per gli attuali oltre 4 milioni e mezzo di profughi; in testa un ragazzo con il viso dipinto porta uno scudo rosso, a simbolo del Fronte Popolare di Liberazione. Tutti hanno bande rosse annodate intorno alla fronte, chi al braccio, a esprimere un'attitudine guerriera e fiera, a ricordare una iconografia indiana, di chi lotta per la propria terra e autodeterminazione.

Abbiamo sfilato per il centro di Gaza, oltre l'ospedale Shifa che ha accolto il più alto numero di feriti durante l'ultimo attacco (1180 casi). Siamo passati sotto il Parlamento disintegrato, malgrado l'enorme mole della struttura collassata su se stessa. Sfugge il senso di bombardare il parlamento, improbabile rampa per qassam di latta, da parte di un paese che usa la retorica della democrazia per seminare guerre.

Abbiamo seguito il lungo Corso, accompagnato al centro da giardini fioriti e curati, ricco di alberi e piante, all'ombra dei quali i cittadini sono soliti riunirsi e spendere il proprio tempo libero. Ai lati la varietà dei negozi non fa pensare a una città sotto assedio e la quantità delle merci esposte invita a una più attenta analisi sull'impatto dell'embargo e sull'importanza dei tunnel.

Il Corso, che declina verso il mare, per la struttura e l'animosità ricorda le Ramblas spagnole, che non a caso derivano il proprio nome dall'arabo Raml, ossia “sabbia”, a indicare una strada che ricopre il letto di un fiume.

Passati oltre un grande manifesto con l'immagine dello storico Presidente Arafat, che stranisce per il potere consolidato di Hamas nella Striscia e la conseguente cacciata di Fatah, arriviamo davanti alla Stazione di Polizia di Saraja, rasa al suolo dagli F16 il 27 dicembre con dentro una massa di cadetti mentre venivano addestrati.

Il lungo Corso si chiama Omar Al Makhtar Street, in ricordo del valoroso partigiano, conosciuto anche come il Leone del Deserto, che tra il 1911 e il 1931 combatté contro l'occupazione italiana in Libia. Proseguirebbe verso il quartiere centrale di Saha, colorato suk di Gaza City che ospita un elegante Municipio, ma il corteo si ferma per essere caricato su dei pullman.

Ci si sposta verso la famigerata Linea Verde.


Attraversiamo Ash Shuja'ieh, un popoloso quartiere a est, nel traffico dell'ora di punta. Sempre più a est arriviamo alle ultime case intorno a un grande spiazzo.

Dopo una distesa di campi, resi impraticabili dai cecchini israeliani, c'è Israele, con i suoi alberi,da questo lato estirpati dai tanks.

Il precedente corteo si trasforma in una festa, ragazzi iniziano a correre in cerchio sventolando bandiere rosse, un pulmino, con gli amplificatori montati sul tetto, manda musica di lotta e di patria, i ragazzi con gli scudi di carta prendono posizione, studiano il vento, iniziano a tendere corde dagli scudi che, vibranti, prendono il volo.

Su, nel cielo, danzano le frange, i colori della Palestina, sopra ogni altro aquilone quello rosso, come a mandare un segno di speranza e di estrema libertà, oltre le rappresentazioni nazionali per un bene comune oltre ogni frontiera, oltre ogni razzismo.


Al ritorno vengo assalito dai ragazzi del pullman, la festa prosegue fino alla loro sede, mi chiedo la mail, il telefono, ci facciamo foto abbracciati, mi chiedono cosa si dice in Europa del dramma palestinese, dei crimini contro loro commessi. Domande a cui è sempre difficile rispondere. La follia di questo totale isolamento dal resto del Mondo li mantiene in una perenne tensione verso l'esterno, una vitale tensione frustrata da anni.


Con Majed, suo fratello e altri due amici ci spostiamo verso la spiaggia per andare a mangiare. Con loro Basel, è alto ed elegante, un franco sorriso rivela una persona riflessiva, è tornato da sei mesi, dopo due anni di prigionia in Israele. La giornata è già stata piena di avvenimenti, così ci promettiamo un prossimo appuntamento, in cui mi parlerà della sua esperienza, dalle prigioni israeliane che accolgono oltre 11 mila prigionieri politici.


Sulla spiaggia ci accomodiamo sopra un barcone arenato sulla sabbia fine, un vecchio peschereccio. Mangiamo riso con pollo alle mandorle, una delizia. Un normale pomeriggio al sole di primavera di ragazzi che vivono affacciati sul Mediterraneo.

Ma dal mare arrivano i colpi sordi, sparati contro i pescatori che non possono superare le tre miglia.


Oggi il senso di accerchiamento è completo.


Assediamo l'assedio.




1 commento:

  1. C'è da vergognarsi per l'indifferenza o la tolleranza dell'Occidente e di ognuno di noi per le sofferenze e la prigionia di quasi un milione di bambini palestinesi ad opera di aguzzini israeliani eredi delle SS
    Pietro Ancona

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