mercoledì 11 marzo 2009

Assediamo l'Assedio

di Marcello Sordo, Gaza

Inizia questa narrazione, testimonianza, diario di viaggio da una serata di giubilo.
Si potrebbe pure dire un diario di bordo, considerato che Gaza è un gigante di vita che alterna luce e oscurità, un satellite strappato dall'orbita della globalizzazione, un lembo di terra che si muove circondato dal nulla, uno spazio-tempo ignorato dal mondo fatto di atavici gesti gentili e sorrisi, calessi trainati da muli e cavalli ben nutriti, un infinito percorso di lotta, stretto nella determinazione di un popolo che dal 1948 resiste a una condanna, la Nakba.

In un viaggio a ritroso cercherò di ripercorrere i dieci giorni passati, da quando sbarcai al Cairo la domenica del primo marzo, insieme a due delegazioni italiane. Una medica, Comitato Medici Liguri per Gaza, e una politica, SOS Gaza, in tutto venti persone. Ognuno di noi lavorava da settimane per i rispettivi obbiettivi ma con l'intento comune di portare aiuti e solidarietà in Gaza.

Alle h.11,30 del 27 dicembre, 60 cacciabombardieri F16 in un solo minuto cacciarono 300 bombe sul pezzo di terra più densamente popolato del mondo, se mai Israele considera la Striscia appartenente al nostro mondo. Esattamente a quell'ora tutti i bambini e i ragazzi erano per le strade perché, per l'affollamento delle scuole, molte classi sono divise in due turni, mentre il primo inizia alle h.07,00 fino alle 11,30, il secondo dalle h.12,00 dura fino alle h.16,00.
La devastazione improvvisa, in una normale mattina assolata, ha colpito quando la città è mossa dal più alto affollamento, reso ilare dal chiasso festoso dell'infanzia che si muove tra le case e la scuola.
La “guerra dei bambini” era iniziata, e sarebbe durata senza interruzione fino alle h.14,00 del 18 gennaio 2009.

Ma torniamo al momento di giubilo che avevo promesso.
Ieri sera, tornando all'ospedale dove alloggio, ho incrociato tanti gruppi festanti per le strade, di gente che urlava e cantava, sventolando bandiere. Pensavo a una manifestazione di Hamas, viste alcune bandiere verdi agitarsi, ma l'amico Abel, mostrando un luminoso sorriso mi dice: “Galloway, Galloway!”. Allora notai un camion che trasportava un enorme gruppo elettrogeno. Accostato il pulmino e superato lo sbarramento al traffico della polizia, mi sono buttato tra la gente, tanti ragazzi mi abbracciavano e prendevano foto. La strada era lasciata libera all'ingresso di Gaza City per automezzi e autocarri che, a intervalli, giungevano tra le masse festanti. Ogni pulmino, corriera, ambulanza che sopraggiungeva era come una goccia di acqua in un deserto che si risvegliava, era un segnale sempre più intenso che negava l'isolamento. Nessuna squadra di calcio aveva vinto un campionato. Era un popolo che ritrovava i propri confini col mondo, sentiva cedere un feroce assedio, salutava mezzi portati in dono per il bene comune: pulmini per il trasporto pubblico, ambulanze, mezzi per i vigili del fuoco, ossigeno per una società civile con un cappio alla gola.
Una colonna di mezzi era partito venti giorni prima dalla Scozia alla volta di Gaza, attraversando Francia, Spagna, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto e mobilitando gli abitanti di tutte le regioni in atti di solidarietà, fino alle porte di Rafah, dove una politica brutale ha posto delle nuove Colonne d'Ercole, oltre le quali vorrebbero annichilire l'umanità che vi risiede. Alle porte di Gaza, sigillate dalle autorità egiziane da oltre venti mesi, in ossequiosa obbedienza ai diktat israeliani, era giunta alla fine una colonna di oltre 130 mezzi, accompagnata dallo storico deputato laburista George Galloway, ultimo tra i politici europei ancora mosso da principi ideali.

Durante la lunga settimana perduta tra le dune del Sinai, il confine di Rafah assumeva un aspetto surreale. Un grande cancello nero, sormontato da un arco dai profili egizi, era perennemente chiuso alle nutrite delegazioni internazionali. Intorno, la pianura brulla era segnata dalla povera agricoltura del Sinai e laggiù, tra le colture e gli arbusti, tutti noi immaginavamo fantomatici tunnel, unici accessi verso l'oltre.
Alcuni chilometri separano il confine dalla Rafah egiziana.
Un lungo rettilineo, tracciato tra le dune e un'arida campagna, ogni sera ci riportava al nostro albergo ad Al Arish. Ogni giorno uguale. Il timore che i 50 chilometri percorsi per raggiungere il cancello fossero inutili creava inquietudine nel gruppo, forse segnato dal primo giorno del nostro arrivo. Appena giunti dal Cairo, dopo circa sei ore di viaggio in un pulmino, ci siamo presentati al posto di frontiera e, mentre si presentavano i documenti forniti dall'ambasciata italiana al Cairo, tre forti detonazioni hanno mosso l'aria, laggiù ancora cadevano bombe. Alla sera i notiziari informavano della distruzione di una decina di tunnel.

Il summit internazionale che si era appena concluso a Sharm El Sheik ci aveva dato qualche esile speranza affinché venisse rotto l'assedio ma la realtà dei fatti dimostrava che, oltre al teatro mediatico della grande politica, rimaneva solo la determinazione degli aiuti umani che erano accorsi e la resistenza del popolo assediato.
Al secondo giorno di presidio, giovedì 5 marzo, le varie delegazioni si sono riunite. Ne facevano parte Gaza Delegation (USA), con una componente mista medica e politica, Medical International Surgical Team (UK), che portava con sé diciotto ventilatori meccanici di rianimazione, più 200 mila sterline di attrezzature ortopediche e la Association Medicale Franco Palestinienne (FRANCE).
Inoltre si attendeva l'arrivo di una delegazione di Code Pink, composta da sessanta statunitensi, tra cui i genitori di Rachel Corrie, uccisa da un caterpillar israeliano, di una nutrita delegazione spagnola e della lunga carovana con George Galloway.
Nell'assemblea che tenemmo, sotto il pergolato dell'unico store che lì davanti esisteva, tutti all'unanimità decidemmo di elaborare forme di lotta per creare una pressione alla frontiera, mantenendo un giusto equilibrio affinché fosse chiara la nostra determinazione ma senza esporci al rischio di venire cacciati, confidando pure sull'appoggio e solidarietà dell'opposizione politica egiziana, in parte socialista e comunista, che combatte la complicità di Mubarak con Israele.
Così si organizzò un presidio permanente anche nella notte, durante la quale si udirono dieci forti esplosioni, una delle quali particolarmente violenta oscurò il cielo.

L'ultimo giorno di presidio, venerdì, il posto di frontiera era mosso da un particolare fermento, piccoli gruppi arrivavano da ogni parte del mondo: tedeschi, giapponesi, irlandesi. Gli ufficiali della sicurezza dimostravano un interessamento, con continue richieste delle rispettive documentazioni e liste nominali delle delegazioni. Regnava l'incertezza generale e non si capiva se gli egiziani stessero giocando con noi, preparando qualche tiro mancino, o se effettivamente qualcosa si stava muovendo per entrare, certo è che entro il fine settimana ci saremmo trovati in centinaia a premere sul nero cancello.
Verso le h.18 ci annunciarono che tutte le delegazioni erano ammesse oltre il confine e che entro sera saremmo stati a Gaza. Solo a chi si era presentato come giornalista è stato negato l'ingresso (o l'uscita dal resto del mondo?), adducendo che avevano bisogno di ulteriori autorizzazioni dal Ministero dell'Informazione.

Eravamo in Palestina. Dopo saluti commossi ci siamo divisi dalle altre delegazioni e siamo stati accolti, negli uffici della polizia di frontiera palestinese, dai dirigenti del Ministero della Salute e del UHWC (Union of Health Work Committees), compreso il Direttore Generale dr Yousef Mousa.
Sui pulmini dell'ospedale Al Awda percorrevamo la Striscia. Poche centinaia di metri oltre il nero cancello e già il panorama era completamente mutato. Non più dune di sabbia e campi assetati ma qualcosa di rigoglioso e familiare si intravedeva nell'oscurità, qualcosa che sapeva di Mediterraneo, di casa.

Il tempo trascorso prima al Cairo è stato occupato prevalentemente dalle trafile burocratiche con l'ambasciata italiana, la quale ci forniva una documentazione per le autorità egiziane di frontiera, rivelatesi poi insufficienti. Nel mentre abbiamo visitato i primi feriti dai bombardamenti di Gaza, di cui allego gli scritti molto esaustivi dei medici appartenenti al Comitato Medici per Gaza, dr. Bianchetti, medico di famiglia di Varese e dr.ssa Laura Franceschini, neuropsichiatra di Imperia.

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